DOSSIER ANTIBIOTICO RESISTENZA: IL RITORNO DEI FAGI Controversia scientifica, ambizioni personali, interessi economici e conflitti politici segnano la strana storia della terapia fagica

DOSSIER ANTIBIOTICO RESISTENZA: IL RITORNO DEI FAGI Controversia scientifica, ambizioni personali, interessi economici e conflitti politici segnano la strana storia della terapia fagica

[English below] Questa strana storia della terapia dei batteriofagi inizia ai primi del Novecento. E, come in un gioco di matrioske, una storia ne contiene un’altra, fino a giungere ai giorni nostri, proprio in Russia; ma per arrivarci bisogna cominciare partendo dalla prima scatola.

Una storia di controversia scientifica e e conflitti personali

1916, Istituto Pasteur (Parigi): il giovane franco-canadese Félix d’Herelle, autodidatta microbiologo volontario presso il prestigioso istituto parigino, mentre studia le malattie infettive di origine batterica, osserva che piastre batteriche in laboratorio presentano strane chiazze trasparenti e attribuisce questa azione battericida a un parassita – un virus – che chiama batteriofago; propone anche che questa azione osservata in vitro possa spiegare l’attività battericida dei batteriofagi in vivo nella dissenteria.  

Ma non è il solo a  fare questa scoperta. In quegli anni, nel 1915, un altro batteriologo, il  britannico Frederick Twort, fa un’osservazione simile ma giunge a conclusioni diverse perché ipotizza che l’azione battericida non sia dovuta a un virus, ma a un qualche enzima litico, cioè a una sostanza in grado di distruggere i microrganismi patogeni attraverso la rottura delle membrane cellulari (lisi).

Il microbiologo Félix d’Hérelle, il “padre” della fagoterapia [Service photo Institut Pasteur – Photothèque]

Il fenomeno descritto indipendentemente dai due scienziati passa alla storia come il “Fenomeno di Twort-d’Hérelle”, generando fin da subito un conflitto di paternità della scoperta. 

Qualche anno dopo (1919) Jules Bordet, direttore dell’Istituto Pasteur di Bruxelles, vince il premio Nobel per il suo lavoro sull’immunità basato sull’azione battericida degli anticorpi; Bordet riprende le idee di Twort sui fagi, che non considera virus – agenti esterni – ma enzimi litici che si attivano in maniera auto-catalitica, cioè entità è in grado di riprodursi senza l’intervento di fattori esterni, attraverso un processo interno che catalizza la propria riproduzione. 

A questo punto la replica di d’Herelle non si fa attendere e in una seconda monografia sui batteriofagi descrive il lavoro di Bordet come ”la storia di un errore”. 

È solo l’inizio di un decennio di dispute scientifiche tra le due parti, d’Herelle da un lato e Bordet e il suo protetto, Andre Garcia, dall’altro: i contendenti rivendicano la paternità della scoperta dei fagi (d’Herelle Vs Twort) e la vera identità dei batteriofagi. 

La comunità scientifica di quei tempi propende per la tesi di Brodet, complici altri illustri contributi in quella direzione, primo fra tutti quello di un altro premio Nobel, John Northrop del Rockefeller Institute, esperto di digestione enzimatica. 

Soltanto l’avvento della microscopia elettronica alla fine degli anni Trenta in Germania rende giustizia finalmente alla tesi di d’Herelle mostrando la prima immagine di un batteriofago che inequivocabilmente lo identifica come virus.  

Ma il secondo conflitto mondiale è ormai alle porte dell’Europa e anche la distribuzione della letteratura scientifica viene severamente compromessa. 

Nel 1934 d’Herelle viene invitato a trasferire il suo lavoro a Tbilisi, capitale della repubblica sovietica della Georgia, dove insieme a un ex collega dell’Istituto Pasteur contribuisce alla fondazione di un Istituto di ricerca avanzato (l’attuale istituto Eliava) che si occupa dello studio dei fagi e della terapia fagica.

Una storia di depistaggi e di pregiudizi

Il lavoro di d’Herelle porta a uno sviluppo importante della terapia con i fagi nei Paesi dell’Unione sovietica in un momento in cui vi era una grande necessità di contenere le infezioni batteriche dei soldati al fronte; la terapia con i fagi viene in parte utilizzata anche dagli eserciti della Germania e del Giappone, che con molta difficoltà avrebbero potuto avere accesso alle prime emergenti terapie antibiotiche. 

Ma perché la terapia fagica non prese piede in occidente, nonostante la microscopia elettronica avesse permesso di identificare i fagi come virus e ci fossero dati scientifici a favore dell’efficacia battericida di questi agenti? 

In quegli anni, nella letteratura scientifica serpeggiavano molte perplessità riguardo all’efficacia in vivo e all’azione di profilassi dei fagi culminate in tre report dell’American Medical Association (AMA) nel 1934, 1941 e 1945, che oltre a contenere forti pregiudizi personali dei loro autori, concordavano nel giudicare le evidenze scientifiche sui fagi contraddittorie e confusionarie. 

A questa narrazione aveva sicuramente contribuito il fatto che, contrariamente agli studi clinici come li conosciamo oggi,  in quegli anni ci si poteva basare soltanto sui risultati di piccoli studi, su aneddoti ed impressioni personali riportate dai diversi scienziati nella letteratura scientifica. 

Una storia di industria del farmaco

Tutto questo contribuì ad alimentare in quegli anni strane idee sui virus. Dopo la scoperta della penicillina da parte di Alexander Fleming 1928, l’esordio sulla scena mondiale dei primi farmaci ad azione battericida fece il resto: molto più semplici da somministrare rispetto ai batteriofagi, più stabili e ad ampio spettro, presero velocemente la scena rispetto ai fagi nel mondo occidentale. 

Negli anni successivi, mentre nell’Est proliferano centri di ricerca e produzione di fagi, le leggi europee vieteranno l’uso dei fagi perché la farmacopea dell’Unione europea non li contempla, nonostante le evidenze e pubblicazioni scientifiche prodotte. 

Unica eccezione occidentale, la Francia, mantiene un sottile filo di collegamento con la ricerca russa sui batteriofagi, utilizzando la terapia fagica solo su alcuni patogeni.  

Mentre la storia innescata dalla scoperta dei fagi si dipana in modo tortuoso e imprevedibile, il loro scopritore, Felix d’Hérelle, non riuscirà mai a vincere il premio Nobel per i suoi studi e nonostante le diverse nomination; nel 1949 morirà dimenticato dalla comunità scientifica proprio come la terapia fagica da lui studiata.

Una storia politica

Forse il passaggio più significativo della strana storia dei fagi si può trovare nel capitolo introduttivo di una monografia del 1963 di G. Stent, influente chimico e biologo molecolare nonché appartenente al “Gruppo dei Fagi” fondato da Max Delbruck negli Stati Uniti. 

Stent critica  in modo netto e definitivo l’efficacia della terapia fagica, insinua che i seguaci sostenitori di tale terapia non abbiamo fondamenti scientifici su cui basarsi ma solo proprie convinzioni, sottolinea l’uso dei fagi da parte delle truppe nemiche (tedesche e giapponesi) durante la seconda guerra mondiale, esalta per contro l’efficacia dei nuovi antibiotici e argomenta in modo scientifico i motivi del fallimento della terapia con i fagi. 

Stent dichiara quindi concluso il capitolo relativo alla terapia con i fagi che, seppure ancora usati in posti “fuori del Mondo” (riferendosi ai Paesi dell’Urss), restano quindi anche fuori dalla narrazione del trionfante progresso della medicina e della scienza occidentale. 

Visto il prestigio goduto dalla personalità scientifica di Stent, nei primi anni Sessanta qualunque studente di microbiologia che si occupasse di fagi doveva necessariamente aver subito l’influenza di queste idee sui fagi. 

Dopo il conflitto mondiale e in piena guerra fredda tra Est ed Ovest, la lotta alle malattie infettive avrebbe dovuto unire le conoscenze scientifiche internazionali in uno spirito di collaborazione mentre al contrario in questi anni si comincia a delineare una demarcazione sempre più netta tra medicina occidentale e il resto del Mondo. 

La distanza scientifica tra i due blocchi si rafforza anche grazie all’influenza del prestigioso agronomo russo Lysenko, contrario alla genetica mendeliana, nominato nel 1938 direttore dell’Accademia sovietica delle scienze agrarie. 

Questa linea di demarcazione diventa una scelta politica più che scientifica, etichettando e allontanando i Paesi dell’Unione sovietica come comunisti e coinvolgendo in questa censura da parte del mondo occidentale anche tutte le conoscenze scientifiche sovietiche, compresa tutta l’esperienza della ricerca con i fagi che proprio in quei Paesi grazie al lavoro iniziale di d’Herelle aveva continuato a proliferare.

Una storia di riscatto

La strana storia dei fagi è un capitolo chiuso, come diceva Stern? Affatto. Anzi è un capitolo che continua ad aprirsi a vari scenari estremamente complessi. Dopo essere stati per anni ignorati dalla farmacopea europea, il Regolamento europeo sui dispositivi medici (MDR-Medical Device Regulation, 2017/745) ha ampliato la definizione di dispositivo medico aprendo nuove prospettive ai fagi in Europa

(© Immagine da Freepik)

Prosperati nei Paesi dell’ex Unione sovietica, essi possono rappresentare un’ulteriore merce di scambio di conoscenze, competenze e materiale (esperienza, know how, librerie fagiche) che la scienza di quei Paesi potrebbe mettere a disposizione del mondo occidentale, oggi più che mai all’affannosa ricerca di terapie alternative alla saturata strategia antibiotica. 

Dopo aver aperto alcune delle matrioske più importanti di questa complicata storia, restano tante domande, e tra queste, una: potrà una scienza super partes rappresentare quel “portale” in grado di risintonizzare e mettere in comunicazione visioni e posizioni così diverse sotto l’egida di un comune obiettivo? 


ANTIBIOTIC RESISTANCE DOSSIER: RETURN OF THE PHAGES Scientific controversy, personal ambitions, economic interests, and political conflicts mark the strange story of phage therapy

By Angela Maria Di Francesco
(english translation by Valentina Fajner)

The strange story of bacteriophage therapy begins in the early 20th century. And, like a set of nesting dolls, one story contains another, leading us up to the present day—back to Russia. But to get there, we must start with the first box.

A story of scientific controversy and personal conflict

1916, Pasteur Institute (Paris): the young Franco-Canadian Félix d’Hérelle, a self-taught microbiologist volunteering at the prestigious Parisian institute, observes strange clear spots on bacterial culture plates while studying bacterial infections. He attributes this bactericidal activity to a parasite—a virus—which he names  “bacteriophage”. He also proposes that the in vitro action he observed could explain the bactericidal activity of phages in vivo, particularly in dysentery.

Microbiologist Félix d’Hérelle, the father of phage therapy [Service photo Institut Pasteur – Photothèque]

But he wasn’t alone in this discovery. A year earlier, in 1915, another bacteriologist, British scientist Frederick Twort, made a similar observation but came to different conclusions. He hypothesized that the bactericidal effect was not due to a virus but rather to a lytic enzyme—a substance capable of destroying pathogenic microorganisms by breaking down their cell membranes (lysis).

The phenomenon, described independently by both scientists, went down in history as the Twort-d’Hérelle Phenomenon, immediately sparking a conflict over who discovered it first.

A few years later (1919), Jules Bordet, director of the Pasteur Institute in Brussels, won the Nobel Prize for his work on immunity based on the bactericidal action of antibodies. Bordet leaned toward Twort’s view, believing phages were not viruses (external agents) but rather self-activating lytic enzymes—entities capable of replicating without external intervention through autocatalytic processes.

D’Hérelle did not remain silent. In a second monograph on bacteriophages, he described Bordet’s work as “the story of a mistake.”

Thus began a decade of scientific disputes: d’Hérelle on one side, Bordet and his protégé André Gratia on the other. They battled over the discovery of phages (d’Hérelle vs. Twort) and the true nature of phages themselves.

The scientific community of the time tended to favor Bordet’s theory, supported by contributions from other prominent figures, including another Nobel laureate, John Northrop of the Rockefeller Institute, an expert in enzymatic digestion.

Only the advent of electron microscopy in late-1930s in Germany finally validated d’Hérelle’s thesis by revealing the first image of a bacteriophage, unequivocally identifying it as a virus.

But by then, World War II was approaching, and the distribution of scientific literature was severely hindered.

In 1934, d’Hérelle was invited to move his work to Tbilisi, capital of the Soviet Republic of Georgia. There, with a former Pasteur Institute colleague, he helped found an advanced research center (now the Eliava Institute) focused on phage studies and therapy.

A story of misdirections and bias

D’Hérelle’s work led to significant advancements in phage therapy across the Soviet Union—at a time when bacterial infections among soldiers at the front were a critical concern. Phage therapy was even used by German and Japanese troops, who had limited access to the newly emerging antibiotic treatments.

But why didn’t phage therapy take hold in the West, despite electron microscopy confirming phages were viruses, and scientific data supporting their bactericidal efficacy?

At the time, skepticism about the in vivo effectiveness and prophylactic action of phages was widespread in the scientific literature. This culminated in three critical reports by the American Medical Association (AMA) in 1934, 1941, and 1945. These reports, shaped partly by personal bias, concluded that the scientific evidence on phages was contradictory and confusing.

This perception was fueled by the fact that, unlike today’s rigorous clinical trials, early phage studies relied on small-scale tests, anecdotes, and personal impressions published in scientific journals.

A story of the pharmaceutical industry

This uncertainty contributed to strange ideas about viruses in those years. After Alexander Fleming’s discovery of penicillin in 1928, the rise of bactericidal drugs changed everything: antibiotics were easier to administer, more stable, and broad-spectrum—quickly overshadowing phages in the Western world.

In the following decades, while phage research and production centers flourished in the East, European regulations banned phage use because they were not recognized in the official pharmacopoeia—despite growing scientific evidence.

France was the only Western exception, maintaining a tenuous connection with Russian phage research, and applying phage therapy for certain pathogens.

As the story of phage discovery unfolded in a winding and unpredictable way, d’Hérelle never received a Nobel Prize for his work—despite several nominations. He died in 1949, forgotten by the scientific community, much like the phage therapy he pioneered.

A political story

Perhaps the most telling chapter in the strange history of phages appears in the introduction of a 1963 monograph by Gunther Stent, a leading chemist and molecular biologist, and a member of the “Phage Group” founded by Max Delbrück in the United States.

Stent harshly criticized phage therapy, implying that its advocates had no scientific basis—just personal convictions. He pointed to the use of phages by German and Japanese troops during WWII, praised the effectiveness of antibiotics, and presented a “scientific” rationale for why phage therapy had failed.

Stent thus declared the phage therapy chapter closed. Though still used in places “outside the world” (referring to the USSR), phages were excluded from the triumphant narrative of Western scientific and medical progress.

Given Stent’s scientific stature, his opinion heavily influenced young microbiologists in the 1960s, many of whom adopted his skeptical view of phage therapy.

After WWII, in the heat of the Cold War, the fight against infectious disease should have united scientists around the world. Instead, it widened the divide between Western medicine and the rest of the world.

The scientific rift between East and West was further fueled by Trofim Lysenko, the influential Russian agronomist opposed to Mendelian genetics, who was appointed director of the Soviet Academy of Agricultural Sciences in 1938.

This division became more political than scientific, marking Soviet countries as communist and thereby discrediting and censoring their scientific knowledge—including all phage-related research, which had continued to thrive thanks to d’Hérelle’s early work.

A story of redemption

Was the strange story of phages truly a closed chapter, as Stent suggested? Not at all. In fact, it’s a chapter that continues to open up to increasingly complex scenarios.

After being ignored by the European pharmacopoeia for years, the European Medical Device Regulation (MDR 2017/745) broadened the definition of “medical device,” opening new opportunities for phages in Europe.

(© Image by Freepik)

Thriving in the countries of the former Soviet Union, phages may now serve as a valuable exchange commodity—offering expertise, know-how, and phage libraries—that Eastern science can share with the West, which is more than ever in need of alternatives to the overburdened antibiotic strategy.

After opening some of the most important “matryoshka dolls” in this complicated history, many questions remain—among them: can a science that stands above ideologies serve as a “portal” to reconnect and harmonize such divergent perspectives in pursuit of a shared goal?

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