Neanche la pandemia ferma il consumo del suolo in Italia: nel 2020 persi altri 56 km² (1) Secondo Farinella di Unife è necessario cambiare il modello di sviluppo, a partire dal recupero dell’esistente e dalla mobilità sostenibile

Neanche la pandemia ferma il consumo del suolo in Italia: nel 2020 persi altri 56 km² (1)

Secondo Farinella di Unife è necessario cambiare il modello di sviluppo, a partire dal recupero dell’esistente e dalla mobilità sostenibile

Il 14 luglio il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa) ha pubblicato l’ottava edizione del rapporto Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici, che fornisce un monitoraggio annuale del territorio e del consumo di suolo nel nostro Paese. I dati, frutto della collaborazione tra l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), e le Agenzie per la protezione dell’ambiente delle regioni (Arpa) e delle province autonome (Appa), confermano una situazione già critica: crescono le superfici artificiali, a danno delle aree agricole e naturali, con conseguenze ambientali ed economiche che ci allontanano dall’obiettivo di Land degradation neutrality previsto dall’Agenda 2030 delle Nazioni unite.

Il suolo è una risorsa fondamentale per l’ambiente: i microrganismi in esso presenti svolgono un’importante funzione di stoccaggio dell’anidride carbonica, contribuendo a combattere una delle principali cause del cambiamento climatico. 

A questa funzione fondamentale si aggiunge l’importanza del suolo per l’agricoltura, con il 95% del nostro cibo che ne deriva, e in quanto habitat per il 25% della biodiversità a livello mondiale. Il suolo è inoltre elemento indispensabile nella prevenzione di inondazioni e siccità, grazie ai processi di controllo dell’erosione e di regolazione del ciclo idrologico, nonché essenziale per l’impollinazione e la regolazione del microclima.

Allo stesso tempo, però, il suolo è una risorsa molto fragile e non rinnovabile. Basti pensare che le superfici perse nel nostro Paese dal 2012 avrebbero garantito la fornitura di 4 milioni e 155mila quintali di prodotti agricoli, l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di acqua piovana e lo stoccaggio di circa 3 milioni di tonnellate di carbonio.

Il danno economico potenziale che ne consegue supera i tre miliardi di euro annui, con un costo complessivo stimato, dovuto alla perdita di servizi ecosistemici tra il 2012 e il 2030, compreso tra ottantuno e novantanove miliardi di euro.

Nonostante ciò, e nonostante la pandemia abbia imposto mesi di blocco alla maggior parte delle attività industriali, nel 2020 l’Italia ha perso altri 56,7 km² di suolo: quasi 2 m² al secondo, con una copertura artificiale totale pari a 7,11% rispetto a una media europea del 4,2%.

Il boom economico, l’abusivismo e la diffusione urbana

Abbiamo chiesto a Romeo Farinella, architetto e docente di Progettazione urbanistica presso l’Università di Ferrara, un’analisi della situazione italiana. “Per capire la natura del problema oggi – afferma Farinella  – dobbiamo fare una premessa storica. Dopo la Seconda guerra mondiale, il boom economico che ha permesso all’Italia di ricostruirsi è avvenuto in gran parte grazie all’edilizia, con la costruzione delle fabbriche e di tutto ciò che ruota attorno a esse. Il detto ‘quando gira il mattone gira l’economia’ mette bene in evidenza la stretta relazione esistente tra l’edilizia e il progresso economico.”

Romeo Farinella, docente di Progettazione urbanistica presso l’Università di Ferrara (©Unife)

Tuttavia, a determinare lo sviluppo delle principali città e la forte crescita periferica sono stati spesso una forte speculazione fondiaria e un diffuso abusivismo.

“Da un lato – continua l’architetto – soprattutto al Sud c’è stato un forte fenomeno di costruzione edilizia fuori dalle regole. Per ovviare al problema si sono concessi diversi condoni, che però hanno determinato una cultura dell’abuso che fa leva sul fatto che l’abuso stesso, prima o poi, sarà compensato semplicemente pagando una multa.

Dall’altro lato, negli anni Ottanta e Novanta abbiamo avuto una fase di urbanistica contrattata andata a vantaggio soprattutto dei privati, con grandi operazioni di trasformazione urbana che hanno lasciato forti tracce. Soprattutto al Centro-nord si è così imposta la cosiddetta diffusione urbana, che è diversa dall’abusivismo.

Il consumo di suolo nel 2020 ha interessato soprattutto le pianure del Nord, con forte intensità anche lungo le coste e nelle aree metropolitane di Roma, Milano, Bari, Napoli e Bologna elaborazioni Ispra su cartografia Snpa)

Le città infatti sono diventate vere e proprie regioni urbanizzate. Sono cresciuti gli spazi urbani lontani dai centri storici, svuotati delle loro funzioni, ad esempio con la costruzione di pezzi di città incentrati su grandi centri commerciali e outlet

Attualmente anche questo modello è in crisi, tuttavia ha disseminato una sorta di ‘marmellata edilizia’ su tutto il Paese: la Pianura Padana ne rappresenta un esempio impressionante.”

Dobbiamo lavorare sulla prevenzione

Considerando anche il consumo di suolo permanente, cresciuto di 8,2 km², l’impermeabilizzazione è aumentata complessivamente di 18 km². A fronte di una situazione ambientale in rapido cambiamento, con alluvioni e inondazioni sempre più frequenti, l’incapacità del suolo di svolgere le sue naturali funzioni di stoccaggio di anidride carbonica e di contrasto al dissesto idrogeologico ci rende incapaci di affrontare situazione emergenziali sempre più estreme.

“In Italia si pone un problema strutturale – prosegue Farinella – cioè il rapporto tra prevenzione e rischio. Siamo sempre stati abituati a gestire il rischio e mai a lavorare sulla prevenzione, ed è un problema enorme. Abbiamo una delle Protezioni civili più efficienti, ma gestire il rischio significa che il danno è già capitato: dovremmo invece iniziare a lavorare di più in termini di prevenzione.

Protezione civile della Campania in soccorso delle popolazioni colpite dall’alluvione a Crotone lo scorso novembre (©ladenuncia.it)

Ad esempio possiamo intervenire sulle aree di esondazione dei fiumi, ripensando tutta l’organizzazione delle strade e degli spazi pubblici in funzione della gestione di questi eventi. 

Non è un problema solo italiano: abbiamo lavorato anche a L’Avana a Cuba, o a Dhaka, in Bangladesh, che è una città d’arte costruita su canali gestiti in maniera ammirevole per secoli, finché l’industrializzazione e la crescita urbana li hanno chiusi con strade o depositi di immondizie. Basterebbe quindi una gestione oculata della geomorfologia della città, lasciando spazio a quei canali e tenendoli puliti. E questo vale anche per l’Italia.”

Oltre la retorica ecologista: il verde come parte del sistema 

Si tratta quindi di un problema comune che richiede un cambiamento radicale nel modo di organizzare il territorio, prima di tutto evitando il più possibile nuova urbanizzazione e, in secondo luogo, lavorando sulla sottrazione.

La crescita delle superfici artificiali nel 2020 è stata infatti solo parzialmente compensata dal ripristino di aree naturali, pari a soli 5 km².

“Abbiamo tante aree artificiali oggi abbandonate con grandi possibilità di intervento – osserva Farinella – Dobbiamo considerare il verde non come luoghi specifici, cioè giardini e parchi, ma come un sistema: dobbiamo pensare a corridoi verdi e corridoi d’acqua che siano in grado di riorganizzare le città.”

Un impatto evidente della trasformazione del paesaggio evidenziato dal report, infatti, è la frammentazione del territorio, cioè la riduzione degli ambienti naturali e l’aumento del loro isolamento. Quasi il 45% del territorio nazionale è classificato nel 2020 come zona a elevata frammentazione.

“Dobbiamo ragionare – prosegue l’architetto – in termini di modelli di sviluppo e non di retorica ambientalista, che tende sempre di più a trasformare progetti di speculazione immobiliare in operazioni ecologiche, semplicemente mettendoci del verde. Il problema invece è molto più complesso, ma di tale complessità non c’è traccia nei dibattiti cui assistiamo quotidianamente. Se infatti la scienza e la ricerca hanno lavorato molto su questi aspetti, l’informazione pubblica rimane molto orientata, retorica e banalizzante.”

L’importanza del recupero dell’esistente e della rigenerazione urbana 

Come intervenire? Non si tratta solo di un problema di tecnica urbanistica, ma anche di sviluppo urbano, economico e sociale che vogliamo perseguire. Secondo Farinella, la strategia dovrebbe essere lavorare sempre più sulla rigenerazione urbana e non sull’espansione, intrecciando la città con la natura e il territorio agricolo in maniera seria, senza le retoriche di questi tempi.

“Manutenzione non vuol dire solo aggiustare qualcosa – specifica il docente – ma significa anche progetto, cioè ripensare i territori e le città. L’Italia è piena di situazioni che richiedono manutenzione, a partire dalle infrastrutture. In Emilia-Romagna, ad esempio, per la zona tra Ferrara, Modena e Bologna gli unici interventi strutturali di cui si sta discutendo sono interventi stradali, come la Cispadana o la terza corsia dell’autostrada A1, in un momento storico in cui dobbiamo invece ridurre il consumo automobilistico privato. Nel nord Europa infatti ci sono città che diventeranno car free entro dieci o quindici anni. 

Ferrara, Modena e Bologna sono tre città a una quarantina di chilometri tra loro, sedi universitarie e con dinamiche economiche intrecciate: rappresentano un naturale sistema metropolitano, che eliminerebbe l’uso dell’automobile, eppure non vi è traccia di questo nei documenti di programmazione.

Ripensare a un modello di sviluppo che ci renda  meno dipendenti dal trasporto privato (©Pixabay)

Si tratta solo di un esempio che però rende bene l’idea di cosa significa intervenire sul modello di sviluppo: andremo nella direzione di potenziare ancora le reti automobilistiche o ripenseremo a un sistema nel quale il trasporto pubblico si intreccia con la mobilità dolce? Se non entriamo in questa prospettiva di cambiamento saremo comunque perdenti, anche nel confronto con altri Paesi europei.”

Dunque l’unica via possibile è un nuovo modello di sviluppo umano che punti sul riuso e la rigenerazione. “È una prospettiva dalla quale non si può prescindere – conclude Farinella –. Il problema non è più solo settoriale, ma richiede una gestione che, consapevole della complessità del fenomeno, cerchi poi soluzioni tecniche particolari che ci consentano di governarla. Il problema non è solo tecnico, ma riguarda anche chi governa i territori e quindi ognuno di noi, in quanto cittadini che eleggono i propri rappresentanti politici. C’è oggi una classe dirigente in grado di affrontare il problema? Questa è un’altra questione aperta, alla quale però purtroppo non so darvi una risposta.” (1.Continua)

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Incontro pubblico “Ricerca e politica climatica. Unife a COP28”
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