Eccessiva violenza all’arresto, ergastolo ostativo e 41 bis troppo rigidi. Il rapporto europeo antitortura analizzato dalla giurista Carnevale di Unife Abusi delle forze dell'ordine di nuovo a Milano e Livorno

Eccessiva violenza all’arresto, ergastolo ostativo e 41 bis troppo rigidi. Il rapporto europeo antitortura analizzato dalla giurista Carnevale di Unife

Abusi delle forze dell'ordine di nuovo a Milano e Livorno

“La parte più accurata del report sulla situazione nelle carceri italiane del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Council of Europe anti-torture Committee, CPT) riguarda casi di maltrattamento e uso eccessivo della forza in situazioni di detenzione a titolo di arresto o di fermo o di identificazione delle persone sotto processo” dichiara ad Agenda17 Stefania Carnevale, docente di Diritto penale presso l’Università di Ferrara. A confermare questo scenario sono anche due recenti episodi di violenza in fase di arresto uno a Livorno, l’altro a Milano.

Il CPT è un organo deputato a controllare che non si verifichino trattamenti inumani e degradanti, torture e violenze nei confronti delle persone private della libertà. Per cercare di risolverli in via preventiva, procede attraverso colloqui riservati, consultazione dei registri medici e verifica dei luoghi di detenzione e redige un report con raccomandazioni al Governo affinché intervenga per scongiurare il ripetersi dei casi segnalati. Le carceri italiane sono state visitate tra marzo e aprile 2022.

“Dalle segnalazioni raccolte – afferma Carnevale – emergono descrizioni abbastanza preoccupanti, per le quali il Comitato avanza una serie di raccomandazioni a prevenzione di ulteriori violenze.”

L’uso della forza al momento dell’arresto: necessario, ma con precisi limiti 

Il sovraffollamento continua a rimanere il grande problema delle carceri italiane, rispetto al quale il CPT sollecita misure concrete per migliorare le condizioni materiali delle prigioni e una strategia ampia e coerente per assicurare che il carcere sia realmente l’ultima risorsa.

Accanto a questo tema, però, ne emerge un altro, su cui si concentra l’analisi più importante: il trattamento delle persone da poco private della libertà. “Il report – dichiara Carnevale – si concentra molto sulle condizioni delle persone ristrette nelle camere di sicurezza dei diversi corpi di polizia, sul rispetto dei loro diritti e lo stato degli ambienti detentivi, sino alla questione dei sospetti maltrattamenti subiti al momento dell’arresto. Si tratta di indagini e approfondimenti estremamente importanti perché si parla pochissimo di questi luoghi e queste delicate attività.

Pur ammettendo che durante l’arresto si possa usare anche la forza, il CPT è però molto preciso nel tracciare dei confini: una cosa è la forza strettamente necessaria e proporzionata, un’altra è l’uso sproporzionato o addirittura successivo all’immobilizzazione della persona.”

Formazione del personale e indagini tempestive per prevenire le violenze

Il Comitato pone l’accento in particolare su due aspetti. “Anzitutto le condizioni fisiche delle persone arrestate devono essere correttamente censite – commenta la docente – e qui emergono le più grandi lacune. 

Se le persone entrano in carcere dopo l’arresto, infatti, il personale riporta se presentano segni, lividi o fratture. Tuttavia sembra non venga quasi mai specificato, come invece dovrebbe essere, se i segni di violenza sono in qualche modo riconducibili al momento dell’arresto e, secondo il CPT, in moltissimi casi lo sarebbero.

Stefania Carnevale, docente di Diritto penale presso l’Università di Ferrara (ⓒunife)

In secondo luogo i pubblici ministeri non sono tempestivamente informati affinché possano avviare indagini pronte ed efficaci, prima che eventuali tracce si disperdano. È fondamentale colmare queste carenze: sono stati fatti passi avanti ma, come rileva il Comitato, spesso le indagini partono con grande ritardo e si inizia a investigare solo con un’esplicita denuncia della presunta vittima anche quando il reato sarebbe perseguibile d’ufficio. 

Per prevenire il problema, bisogna partire da un messaggio culturale e un’adeguata formazione professionale. Il CPT raccomanda al Governo di trasmettere il messaggio per cui l’uso della forza deve essere limitato e proporzionato e che l’uso non adeguato sarà perseguito sul piano disciplinare e penale.”

Non collaborare con la giustizia non comporta l’ergastolo ostativo, secondo Costituzione e Cedu 

Nella sezione dedicata ai regimi di massima sicurezza, il CPT affronta ergastolo ostativo e 41bis. L’ergastolo ostativo è un regime nel quale ai detenuti colpevoli di reati particolarmente gravi sono preclusi benefici come la liberazione condizionale, il lavoro all’esterno, i permessi premio e la semilibertà, qualora non collaborino con la giustizia.

Secondo il CPT, questa disciplina speciale si concentra solo sulla mancanza di collaborazione e non valuta né il processo di reintegrazione né i progressi compiuti dal detenuto. L’inconfutabile presunzione di pericolosità, però, lo priva di ogni prospettiva di rilascio e viola l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu).

“Il Comitato – spiega Carnevale – chiede di essere informato sulle evoluzioni normative in materia di ergastolo ostativo. Dichiarato nel 2019 incompatibile con la Cedu e la nostra Costituzione (in questo secondo caso nel circoscritto ambito della fruizione dei permessi premio), l’ergastolo ‘senza speranza’ non è invece stato dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale, con riguardo alla possibilità di ottenere la liberazione condizionale. 

Si tratta di una misura applicabile solo alle persone completamente rieducate e rende compatibile con la Costituzione la pena perpetua: l’ergastolo deve poter essere riconsiderato a fronte della conclusione del percorso di recupero del condannato. Ma per chi è detenuto per reati ‘ostativi’ e non abbia collaborato con la giustizia, qualunque possibilità di reintegrazione sociale è rimasta preclusa per più di trent’anni, a causa di un divieto introdotto nel 1992.

Nel 2021, la Corte ha prospettato chiaramente profili di incompatibilità della disciplina con la Costituzione, dando un termine al Parlamento (un anno, protratto per altri sei mesi) per porvi rimedio. La riforma della materia, entrata in vigore il 30 dicembre 2022, rimane molto severa e restrittiva ma consente per la prima volta anche a chi non collabora di accedere a diverse misure di progressivo e controllato reinserimento, liberazione condizionale compresa, seppure con moltissime cautele. Vedremo se sarà applicabile o se i tanti limiti posti alla reintegrazione sociale risulteranno talmente rigidi da renderla concretamente inoperante.”

Dall’altro lato c’è il tema del 41 bis, rispetto al quale non sono state accolte le raccomandazioni, già avanzate nel 2019, di maggior umanità del trattamento, che non andrebbero a scardinarne l’impianto né ne diminuirebbero l’efficacia.

Per donne e transgender servono centri dedicati

Infine, la detenzione di donne e persone transgender: in molti Paesi, compresa l’Italia, le carceri sono costruite per ospitare detenuti uomini ed essere gestite da personale maschile. Occorre invece una rete di centri dedicati, volti al reintegro delle donne in società attraverso una maggiore vicinanza alle famiglie. 

In Italia, con una popolazione carceraria femminile di circa il 4,2% (2.392 al 31 gennaio 2023), ci sono solo quattro prigioni femminili (599 detenute) e la maggioranza è ospitata in sezioni separate di prigioni maschili. Il CPT esorta perciò a un approccio di genere, considerando soprattutto il fatto che molte detenute sono state vittima di abusi fisici e sessuali.

La percentuale di donne detenute si attesta da alcuni anni attorno al 4,2% (©rapportoantigone.it)

Dovrebbe inoltre essere adottato uno screening medico specifico, in particolare l’esame delle violenze di genere subite, perché consente di individuare situazioni di vulnerabilità rispetto ad autolesionismo, tendenze suicide e problemi di salute mentale.

Stesso discorso vale per le persone transgender, che devono essere ospitate in sezioni corrispondenti alla propria identità di genere o, almeno, in sezioni separate che ne garantiscano la sicurezza e momenti di socialità con le detenute del genere con cui si identificano. 

“Sulla gestione da parte di personale maschile – conclude Carnevale – sono stati fatti grandi passi: molte carceri sono dirette da donne e ci sono molte donne tra il personale educativo e di polizia penitenziaria.

Sul fronte della detenzione, invece, le donne scontano il problema di essere una minoranza e sono isolate dalle maggiori attività poiché le poche risorse sono riservate alle sezioni con la maggior parte dei detenuti. Inoltre le pene alternative, se pur presenti, sono previste in misura estesa per le madri a tutela non della persona detenuta, ma del superiore interesse del minore. Qui si richiede invece maggiore e specifica attenzione per le detenute in quanto tali.”

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