SPECIALE CARCERE La sola reclusione è un fallimento Idee, risorse e determinazione per un modello sostenibile

SPECIALE CARCERE La sola reclusione è un fallimento

Idee, risorse e determinazione per un modello sostenibile

A una qualsiasi azienda che si vedesse respinto il 75% dei propri prodotti non resterebbe che portare i Libri in Tribunale. Che dire allora di una istituzione pubblica che si vede rifiutare oltre il 75% del lavoro svolto? Ebbene questo è il risultato raggiunto dal Sistema carcerario del nostro Paese. Questa è la recidiva, quel fenomeno, cioè, che vede rientrare in cella chi ne è appena uscito.

Una “Fatica di Sisifo” che dovrebbe far riflettere sull’intera cultura penale.

La Giustizia misura la gravità della pena in anni di carcere senza domandarsi se, a fine pena sei migliorato o meno; se la società può essere rassicurata perché hai pagato il tuo debito. La Magistratura non è nelle condizioni di poter contare su misure alternative e di pubblica utilità perché, seppur previste dalla normativa vigente, semplicemente non esistono.

La giurisprudenza ci aiuta a riflettere sulla triplice ragione del castigo: per primo si punisce il colpevole; si ristora, per quanto è possibile, il danneggiato ed infine si lancia un monito rivolto ai cittadini perché sappiano come finisce chi delinque.

In questa definizione manca un elemento prezioso non secondario e previsto e descritto in modo netto dall’Art. 27 della Costituzione italiana che recita al secondo capoverso: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Mai parole sono state così chiare e così ignorate.

Non confinare unicamente il colpevole. Serve un modello sostenibile Educazione e sport aiutano

Da anni frequento come volontario alcuni Istituti di pena, cerco di collaborare perché sia rispettato il dettato costituzionale in modo strano e certamente originale: con un gruppo di tecnici ed alcuni benefattori, insegno la pratica del gioco del rugby, cui sempre più viene riconosciuta la capacità di produrre dinamiche positive e valori importanti. Si sta diffondendo rapidamente.

Non ci facciamo grandi illusioni, ma se, alla fine della pena, saranno migliorati anche di poco, avremo raggiunto una buona meta, perché io credo che la civiltà di un Paese  sia misurata anche dal modo in cui sono trattati i “reietti”, gli ultimi degli ultimi, i colpevoli reclusi, privati della libertà e spesso costretti a vivere in una situazione infernale chiamata carcere.

In questa situazione infernale galleggiano i colpevoli, ma anche chi si prodiga per assicurarne il controllo, e quelli che si impegnano per la loro assistenza educativa ma devono fare i conti con un sistema complessivo che non funziona. Ma non è solo un problema di risorse palesemente insufficienti: è una questione di un modello arretrato che confina il colpevole, lo ignora e se ne libera per un certo periodo; magari per sempre.

Lo dicono i fatti: le strutture sono fatiscenti e sovraffollate, il Servizio sanitario è  inadeguato e ignora le malattie psichiatriche, la formazione del personale e il suo numero sono insufficiente ai compiti richiesti, scarse e quasi inesistenti le opportunità di studio o lavoro per i detenuti, vitto la cui qualità obbliga, ad integrarlo con acquisti individuali (chi può). Il tempo vuoto di tutto mina la stabilità delle persone.

Non si tratta quindi della sola privazione della libertà, ma di privazione di ogni cosa in un sistema che crea rancore e ribellione, non rieduca.

Solo un approccio culturale diverso, un lavoro lungo e faticoso da affrontare con la giusta determinazione e nuovi investimenti potrà portarci a un modello sostenibile.

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