Leonardo Schippa, docente di Idraulica fluviale e protezione idraulica del territorio presso l’ Università di Ferrara, è membro esperto di Idraulica Fluviale del Comitato scientifico costituito dall’Autorità distrettuale del bacino del Po per l’attuazione del progetto di”Rinaturazione dell’area Po”, finanziato con i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il progetto di rinaturalizzazione del Po è particolarmente significativo perché deve rispondere alle esigenze di sicurezza, approvvigionamento idrico e tutela della biodiversità di un’area vastissima, che va dal Piemonte all’Adriatico. E lo fa in una modalità per molti aspetti innovativa: accanto agli ingegneri esperti (“la minoranza” precisa Schippa), protagonista sarà la nuova sinergia tra World Wildlife Fund (WWF) Italia e l’Associazione nazionale estrattori produttori lapidei affini (Anepla), con il patrocinio delle Regioni, Adbpo e Aipo. Nonostante alcune critiche sulla scarsa efficacia della partecipazione, il progetto è fino ad ora unico in questo campo.
Abbiamo dunque chiesto a Schippa di analizzare con noi, nell’ambito delle iniziative della Rete delle università per lo sviluppo sostenibile (Rus) alcuni aspetti salienti della gestione della sicurezza idraulica a partire dall’alluvione che ha colpito l’Emilia -Romagna. È ormai evidente che non siamo di fronte a un evento unico, ma a un frequente alternarsi di lunghi periodi di siccità e con brevi momenti di piovosità intensa.
Il problema ora è capire in che misura i danni sono imputabili alla consistenza e caratteristiche dei fenomeni (quantità, intensità, durata, intervallo delle precipitazioni) e quanto a una cattiva gestione del territorio (impermeabilizzazione dei suoli, regimentazione dei corsi d’acqua, dragaggio, eccessivo sfruttamento per usi civili). Il che porta poi a chiedersi se la progettazione ingegneristica basata su calcoli statistici, “tempi di ritorno” storici dei fenomeni, rigida regimentazione delle acque funziona ancora, e che ruolo può avere la rinaturalizzazione, e se essa è possibile in contesti così fortemente antropizzati come la Pianura padana
Partiamo dagli eventi meteorologici: nei mesi scorsi abbiamo assistito a lunghissimi periodi di siccità e scarsa portata nei fiumi e nel reticolo idrografico e ora a improvvise ondate di piena. Cosa è successo?
“Le prime due settimane di maggio hanno presentato una configurazione metereologica che tende a ripetersi negli ultimi anni sull’Europa, con anticicloni provenienti dall’Atlantico e depressioni sul Mediterraneo centrale, che sono stazionate per un tempo eccezionalmente prolungato sulla parte centrale della Penisola rovesciando sulla Romagna nel volgere di una decina di giorni piogge che localmente hanno abbondantemente superato la metà dell’intero volume medio di pioggia annuale.
Alla copiosità degli afflussi hanno fatto seguito abbondanti deflussi che hanno prodotto il sormonto o la rottura in quasi tutti i corsi d’acqua appenninici regionali dal Reno al Marecchia. In questo caso la crisi non è stata prodotta da precipitazioni di alta intensità e breve durata (bombe d’acqua), bensì da precipitazioni copiose e prolungate su durate critiche per la formazione delle piene nei corsi d’acqua appenninici.”
Quanto conta il cambiamento climatico? questi fenomeni ne sono una conseguenza diretta? in che modo agisce?
“L’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), il massimo consesso mondiale di esperti sul clima, evidenzia che la temperatura media sulla superficie terrestre del periodo 2001-2020 è superiore di circa 1°C rispetto al 1850-1900. Come impatta questo innalzamento delle temperature sul ciclo idrologico e sulle piene fluviali? Anche se non è ancora possibile dedurne le conseguenze dirette in termini di frequenza e intensità degli eventi estremi di piogge e deflussi, per certo il global warming produce una maggior evaporazione dai mari divenuti più caldi, e da una maggiore capacità dell’aria calda di contenere vapore acqueo. Questo fenomeno è ancora più preoccupante per un mare confinato come il mediterraneo, dove negli ultimi 20 anni si è assistito ad un aumento lineare delle temperature negli strati intermedi con un innalzamento di quasi un grado nel ventennio. Un’altra evidenza si riscontra nella scarsità di disponibilità di risorsa idrica nei mesi più caldi rispetto a quelli piovosi, con conseguenze impattanti per l’agricoltura e in alcuni casi la disponibilità di acqua ad uso idropotabile.
Il punto essenziale è che i cambiamenti climatici sono in atto, e che da una parte è assolutamente necessario e urgente assumere indirizzi che si tramutino in azioni per limitarne la tendenza evolutiva, quali ad esempio la riduzione dell’emissione dei gas serra in atmosfera, ma dall’altra è altrettanto necessario e urgente mettere in atto approcci di adattamento ai cambiamenti climatici.”
Quanto incide il consumo e l’impermeabilizzazione del suolo?
“A livello nazionale il consumo di suolo si è concentrato nelle aree maggiormente accessibili e produttive, ovvero, lungo la fascia costiera entro un chilometro dal mare, nelle aree di pianura e nei fondovalle fluviali dove il suolo è più fertile. Si stima che quasi la metà della perdita si concentri all’interno delle aree urbane e periurbane. Le province della pianura Emiliana-Lombardo-Veneta presentano densità del consumo di suolo generalmente sopra la media nazionale, con poche eccezioni. Sempre sopra la media molte province della costa adriatica.
Nel periodo 2006-2012 sono stati consumati mediamente 27,4 Ha/giorno su base nazionale, ed il 40% di questi sono stati consumati nelle sole quattro regioni padane (Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Piemonte). Nel decennio 2012-21 il consumo di suolo si è significativamente ridotto su scala nazionale portandosi a 16 Ha/giorno, mantenendo la stessa proporzione a carico delle regioni padane. Nell’ultimo anno 2020-21 il consumo di suolo nelle regioni padane ricade per il 30% in area a media pericolosità idraulica (corrispondenti a tempi di ritorno di 100-200 anni).
(da SNPA report 2022, (Sistema Nazionale Protezione Ambiente-Ispra)
Entro la fascia di rispetto di 150 metri dai corsi d’acqua opera un “vincolo di inedificabilità assoluta, (d. lgs. n. 42/2004) posto a protezione del corso dell’acqua e funzionale proprio ad evitare costruzioni in tale area particolarmente vulnerabile sotto il profilo paesaggistico”. Tale norma è tuttora di necessità soggetta a numerose deroghe ed eccezioni conseguenti l’assetto territoriale pregresso, soprattutto nelle aree di pianura, ove la pianificazione urbanistica era in passato meno efficace e razionale. Emblematico il caso della recentissima rotta dell’argine del Santerno di questi giorni a Cà di Lugo, apertasi in corrispondenza di un tratto ove sono presenti abitazioni a ridosso del piede arginale.
Si parla di una somma di 10 miliardi per tornare alla normalità dopo l’alluvione … per avere un’idea con quelle risorse si sarebbero potute realizzare oltre 150 casse di laminazione!
Comunque, i costi elevatissimi tutti a carico della comunità, pongono in evidenza anche un altro problema: l’urgenza di giungere a un sistema assicurativo a copertura estesa dei danni alluvionali, dai quali oggi rimangono escluse ad esempio le abitazioni private, che viceversa possono essere assicurate per diversi eventi calamitosi, compreso il sisma.”
Come limitare le alluvioni nel futuro?
“Ciò che è accaduto in Romagna nelle scorse settimane ci riporta agli eventi del maggio 1939 ricordato dagli anziani come il “maggio della grande alluvione”, caratterizzato da una piovosità insistente e particolarmente abbondante, che colpì duramente le popolazioni e i territori, segnando lo straripamento di canali e la rottura di argini fluviali, la più grave quella del Lamone.
Le campagne rimasero sommerse dalle acque anche oltre due settimane con danni enormi all’agricoltura, agli allevamenti ed alle infrastrutture (modeste) di allora.
Al di là dell’intensità dei due eventi di allora e di oggi, la differenza fondamentale sta nel danno prodotto al tessuto socio produttivo, oltre che alla immane tragedia della perdita di vite umane, conseguenza di un territorio che, diversamente dagli anni Trenta del secolo scorso, oggi è caratterizzato dalla presenza di insediamenti urbani ad alta densità, agricoltura intensiva e specializzata, nonché un tessuto industriale artigianale di pregio. In altre parole, il danno conseguente alle inondazioni, enormemente più elevato di quello di un secolo fa, costringe a rivedere il livello di rischio residuale. Quindi, per ridurre il rischio idraulico, da una parte si può agire riducendo la pericolosità (cioè la ricorrenza attesa delle alluvioni), e dall’altra limitando la “vulnerabilità” dei beni esposti.
La riduzione della pericolosità, si deve perseguire con interventi di tipo strutturale e non strutturale, coniugando possibilmente le diverse esigenze imposte dal cambiamento climatico: da una parte fronteggiare la maggior frequenza di eventi anomali o estremi, dall’altra contrastare la scarsità di acqua nei mesi estivi, ed al tempo stesso contrastare il riscaldamento globale, responsabile della crisi idrica, limitando progressivamente il ricorso a fonti energetiche fossili ed incrementando l’uso di energie pulite e rinnovabili, come l’idroelettrica. “
Assistiamo a un dibattito molto acceso fra diverse filosofie di interventi strutturali per la regimentazione dei corsi d’acqua: quali sono le soluzioni migliori in questo contesto meteo-climatico mutato?
“ Per ridurre la frequenza delle inondazioni non si può pensare di agire aumentando progressivamente ed illimitatamente l’officiosità idraulica degli alvei innalzando le difese arginali (intervento strutturale “passivo”). L’intervento oltre che risultare inefficace sotto il profilo pratico realizzativo, comporterebbe un inevitabile trasferimento del rischio di esondazione a valle della zona di intervento.
Infatti, i costi ed i tempi di realizzazione sarebbero difficilmente affrontabili considerando che il solo fiume Po compresi i rami del delta ed i suoi affluenti presentano oltre 2500 km di argini. Inoltre, l’argine tradizionale è per sua natura una difesa non resiliente, che potrebbe essere definita “analogica”: in presenza di una piena appena esuberante rispetto la capacità di contenimento, la tracimazione verso campagna determina rapidamente il crollo della difesa vanificandone la presenza. Peraltro, per sua natura costruttiva, la linea di coronamento dell’argine è irregolare in quota, rendendo difficilmente prevedibile l’esatto punto di rottura durante il passaggio della piena.
Un diverso approccio consiste nel ricondizionamento degli argini esistenti in argini tracimabili, realizzando una difesa lineare che viene localmente sormontata in occasione dell’evento estremo, pur rimanendo salda, limitando quindi i volumi di esondazione e di conseguenza il danno, e rendendo più prevedibile e meglio gestibile la fase dell’emergenza e del rientro al tempo ordinario. Questo approccio mostra il massimo dell’efficienza nei contesti di pianura caratterizzati dalla presenza di estese depressioni ed una significativa rete infrastrutturale, agevolando la previsione della vulnerabilità in relazione all’evento in atto.
Contestualmente occorre potenziare la naturale tendenza alla laminazione dei corsi d’acqua, rinaturalizzando fasce di pertinenza fluviale che sono state inopportunamente sottratte al deflusso delle piene, e collegando con l’alveo attivo aree depresse limitrofe ai corsi d’acqua tipicamente utilizzate in passato per attività estrattive ed ora dismesse.
Insieme a questi sono da considerare anche gli interventi strutturali “attivi” finalizzati alla riduzione del colmo di piena. Tra questi le casse di laminazione in derivazione e gli invasi in linea. Le prime, se dotate di organi di regolazione, possono essere predisposte, in fase di previsione e gestione della piena in tempo reale, ad attivarsi in modo ottimale, riuscendo ad “adattarsi” alla piena reale, che è sempre diversa per colmo e volume dalla piena di progetto. Nella parte montana dei bacini molto efficaci risultano gli invasi in linea. In questo caso il sistema diga-serbatoio potrebbe assolvere la triplice funzione di laminazione delle piene, di riserva idrica per contrastare la scarsità di risorsa idrica nei mesi asciutti e di alimentazione di impianti per la produzione di energia idroelettrica.
Considerato il bilancio idrologico annuale, la orografia del territorio nazionale e la sua esposizione all’irraggiamento solare si può affermare che l’Italia è ricca di fonti energetiche, pulite e rinnovabili. “
… la siccità è l’altra faccia della medaglia
“In ITALIA piovono 950 mm/anno rendendo teoricamente disponibili oltre 300 MLD di mc di acqua. Secondo le stime ricostruite da ISPRA negli ultimi 20 anni si registra una riduzione media annua del 16% rispetto alla media sul lungo periodo 1951-2021. Le cause sono da attribuire alla diminuzione delle precipitazioni, all’incremento dell’evaporazione dagli specchi d’acqua e dalla traspirazione dalla vegetazione, per effetto dell’aumento delle temperature associate al riscaldamento globale.
Alla ridotta disponibilità di risorsa superficiale consegue un incremento della pressione antropica sui corpi d’acqua superficiali per derivazioni ad uso idropotabile ed irriguo che rischia di compromettere l’equilibrio ecosistemico. Per evitarlo occorre aumentare la capacità di trattenuta del sistema degli invasi, oltre a contrastare fenomeni di perdita.
Al netto della pioggia che filtra nel sottosuolo o partecipa ai processi di evapotraspirazione, mediamente 75 MLD di mc all’anno rimangono disponibili per i corpi idrici superficiali, compresi laghi ed invasi artificiali.
Sono attualmente presenti 526 grandi dighe (cioè sbarramenti alti più di 15 m con un invaso di oltre 1 ML di mc), di cui solo 430 a pieno esercizio, che complessivamente invasano 12 MLD mc, di cui oltre la metà sono ad uso irriguo. Negli anni si è ridotta significativamente la realizzazione delle dighe in Italia: si consideri che negli anni Venti del secolo scorso erano presenti complessivamente 25 invasi, che poi sono cresciuti fino a 400 nel periodo 1920-1965 corrispondenti a circa 9 invasi per anno, per poi attestarsi all’attuale valore di 526, con una crescita negli ultimi 57 anni di circa 2 invasi per anno.”
(aggiornamento ore 16 del 01/06/2023)