Il cambiamento climatico fa aumentare le frane in montagna. Lo scorso anno il record dell’ultimo ventennio Secondo il geologo Gianolla di Unife la crisi attuale accelera: bisogna lavorare su prevenzione e monitoraggio

Il cambiamento climatico fa aumentare le frane in montagna. Lo scorso anno il record dell’ultimo ventennio

Secondo il geologo Gianolla di Unife la crisi attuale accelera: bisogna lavorare su prevenzione e monitoraggio

Secondo il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), che a gennaio ha aggiornato il catasto delle frane di alta quota nelle Alpi, l’estate 2022 ha fatto registrare il maggior numero di frane sulle Alpi dal 2000 ad oggi. Le abbondanti piogge dei giorni scorsi hanno determinato ulteriori episodi in molti territori montani: in attesa dei dati ufficiali per l’anno in corso, abbiamo chiesto a Piero Gianolla, geologo e docente presso l’Università di Ferrara, un’analisi del fenomeno, che interessa non solo come sintomo del cambiamento climatico ma anche sotto il profilo turistico e di sicurezza per chi vive in montagna.

Il catasto del Cnr contiene informazioni su 722 processi di instabilità naturale (frane, colate detritiche e instabilità glaciale) avvenuti nelle Alpi italiane sopra quota 1.500 metri nel periodo 2000-2022. I più frequenti sono i crolli di roccia (36% del totale), seguiti dalle colate detritico-torrentizie (25%). Le analisi evidenziano una crescita negli anni a causa soprattutto dell’aumento delle temperature, che determina la degradazione del permafrost incidendo, dunque, sulla stabilità dei versanti. Oltre la metà degli eventi documentati finora, infatti, si verifica durante l’estate (56%).

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Crescono soprattutto le frane di alta quota durante l’estate (©geoclimalp.irpi.cnr.it)

Secondo uno studio pubblicato su Springer, molto rimane da chiarire sul ruolo dei fattori climatici sui cedimenti in alta quota, sia per la complessità dei processi climatici sia per la scarsità e la disomogeneità spazio-temporale delle informazioni. Tuttavia gli autori affermano che la maggiore incidenza estiva è dovuta alla combinazione tra rapido scioglimento della neve, maggiore disgelo stagionale e il protrarsi di temperature anomale.

Il permafrost non riesce più a trattenere le rocce

Alle quote più alte, il cambiamento climatico ha un impatto sulla criosfera, la parte di superficie terrestre dove l’acqua è allo stato solido (neve, ghiaccio e permafrost). Il ghiaccio è presente non solo nei ghiacciai visibili, ma anche dentro gli accumuli di detriti e nei versanti montuosi, dove agisce da collante nelle fratture della roccia.

“L’aumento della temperatura – afferma ad Agenda17 Gianolla –  determina un aumento dell’energia del ciclo idrogeologico: piove più forte e in maniera differente e, al contempo, si alza lo zero termico per cui il permafrost si scioglie e non riesce più a tenere assieme le rocce.

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Piero Gianolla, geologo e docente presso l’Università di Ferrara (©unife.it)

In questo momento stiamo compromettendo l’equilibrio termico di una fascia di rocce e ambienti che, di conseguenza, rispondono in disequilibrio, determinando l’incremento dei crolli, che sono dunque una risposta naturale delle pareti.

Ciò che è particolarmente eccezionale è però la velocità con cui sta accadendo: già quindici anni fa si parlava di cambiamento climatico facendo previsioni sull’evoluzione dei ghiacciai, ma si sono rivelate completamente sballate perché è tutto molto più veloce di quanto ci aspettassimo.”

Alle quote più basse agiscono soprattutto gli eventi estremi 

Gli ambienti alpini sono tra i principali indicatori del cambiamento climatico, ad esempio con la riduzione delle masse dei ghiacciai, sostituite da vegetazione, la diminuzione della copertura nevosa, la degradazione del permafrost, lo spostamento verso l’alto degli ecosistemi e l’aumento dei processi di instabilità naturale.

Anche alle quote più basse ci sono delle conseguenze. Qui sono soprattutto piogge, vento e disgelo a colpire le pareti, ma oggi sono in aumento gli eventi estremi, ad esempio le abbondanti piogge concentrate in pochi giorni che penetrano nei crepacci causandone il distacco.

“Questi eventi – afferma Gianolla – muovono coltri di detriti che possono investire i sentieri di montagna, ma anche rifugi, centri abitati e strade sottostanti, come ad esempio di recente è successo alle pendici del Pelmo.

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Di recente una colata detritica ha invaso il sentiero che conduce al rifugio Città di Fiume, a Borca di Cadore (©facebook/rifugiocittadifiume)

Chiaramente le pareti esposte a sud, soggette a maggiore insolazione e a variazioni significative di temperatura tra giorno e notte o tra le varie ore del giorno, tendono ad avere una dilatazione termica maggiore e rispondono con maggiori frane. A rischio sono anche le rocce più fratturate, caratterizzate dalla presenza di permafrost o di acqua all’interno che poi ha gelato.”

Fare prevenzione: in lavorazione un nuovo monitoraggio delle pareti

“Per fare prevenzione – prosegue – si può sicuramente ragionare su questi elementi, ma lo si può fare anche in termini storici studiando le frane del passato. Ci sono già studi di università e Cnr al riguardo, ma andrebbe implementata un’analisi di dettaglio sulle pareti più frequentate.

Come gruppo di geologia della Fondazione Dolomiti Unesco stiamo ragionando su un monitoraggio della stabilità delle pareti, a partire ad esempio da rilevamenti termici basati su tecniche meno invasive che permettono di monitorare la temperatura, che è la cosa più importante.

Si tratta di un progetto in fase di lavorazione ma è strategico. Attualmente infatti ci sono molti monitoraggi in corso, ad esempio dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) delle Regioni, ma i geologi sono di fatto pochi ed è necessario anche migliorare la prevenzione e implementare le carte del rischio.”

Studiare le rocce per spiegare il cambiamento climatico

La prevenzione parte soprattutto dalla formazione. “Manca – osserva Gianolla – una solida conoscenza negli abitanti, ai quali spesso si fatica a spiegare che quanto sta accadendo è fuori dalla memoria storica delle popolazioni perché mai accaduto. 

In passato ci sono state fasi di cambiamento climatico e le stiamo studiando dagli anni Novanta attraverso le rocce. In particolare c’è un intervallo di rocce risalente al Triassico (tra 250-200 milioni di anni fa), ben visibile ad esempio nella cengia che sta alla base delle Tre Cime o delle Tofane, che è legato a una crisi di determinati organismi viventi detti ‘biocostruttori’.

All’inizio di tale crisi, che coinvolse tutto il Pianeta, ci fu un forte aumento di CO2 dovuto a un evento vulcanico nel Pacifico, a cui è corrisposto un aumento della temperatura, del ciclo idrogeologico (più piogge e incendi) e dell’acidità dell’acqua. Si è quindi creata una grande piana, su cui poi nel tempo è ripresa l’attività di questi organismi.

Studiare tali rocce ci permette di capire cosa succede con queste crisi climatiche e quando parlo con gli studenti o le popolazioni poterle mostrare concretamente mi permette di far capire cosa vuol dire cambiamento climatico. Oggi infatti accade qualcosa di simile ma estremamente fuori scala, quindi anche la risposta del sistema naturale sarà molto ampia.”

Sicurezza e formazione dei turisti

Dall’altro lato è in crescita la frequentazione turistica delle montagne e anche la sicurezza di soccorritori e turisti parte dalla formazione. “Si tratta di agire – conclude – in termini di formazione. La quantità di persone che sta frequentando la montagna comporta un aggravio in termini di sicurezza per i volontari del soccorso alpino, ma anche un ulteriore peso sui versanti: si cammina su ghiaioni fatti di pietra che fisiologicamente cade dalle pareti, ma è ben diverso se ci passa una persona ogni ora o se ne passano mille in fila.
È poi vero che gli incidenti capitano anche agli esperti e su vie fino a quel momento stabili, ma questo non vuol dire chiudere le montagne: significa sia fare un lavoro di consapevolezza della frequentazione sia ripensare a un monitoraggio sullo stato di salute delle pareti. È complicato ma sicuramente una sfida interessante.”

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