Dal 30 novembre al 12 dicembre 2023 è in programma a Dubai (Emirati arabi uniti) la prossima Conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (Conference of Parties, COP28). I Governi africani si presenteranno con una posizione comune stabilita all’Africa Climate Summit, tenutosi a Nairobi (Kenya) all’inizio di settembre. Il vertice e la Dichiarazione finale di Nairobi si sono concentrati sulla finanza climatica e sul (controverso) mercato dei crediti carbonici.
Maggiore vulnerabilità alla crisi climatica, ma minori finanziamenti
Pur essendo attualmente responsabile solo del 3,8% delle emissioni annuali di gas serra, il continente africano è particolarmente vulnerabile alla crisi climatica. Secondo il rapporto “State of the Climate in Africa 2022” dell’Organizzazione meteorologica mondiale (World Meteorological Organization, WMO), nello scorso anno le temperature hanno continuato a crescere e sono stati registrati ottanta eventi estremi, dalla siccità nel Corno d’Africa alle alluvioni in parte del Sahel, dalle ondate di calore nel Nord Africa occidentale ai cicloni e alle tempeste tropicali in Africa meridionale.
Questi eventi hanno colpito più di 110 milioni di persone e causato circa 5mila morti e 8,5 miliardi di dollari di danni economici, ma si ritiene che tali dati siano sottostimati. Si prevede che il costo di perdite e danni subiti dal continente a causa della crisi climatica varierà tra 290 e 440 miliardi di dollari, con un aumento della temperatura media globale a fine secolo compreso tra +2°C e +5°C. E anche nello scenario migliore di mitigazione e adattamento, l’Africa sperimenterà comunque una parte residuale di perdite e danni.
Proprio per questo è importante che la Dichiarazione di Nairobi abbia richiamato l’attenzione sull’impegno preso dalle Paesi sviluppati alla COP15 di Copenaghen di mobilitare finanziamenti pari a 100 miliardi di dollari l’anno per i Paesi in via di sviluppo (nel 2020 sono stati raggiunti 83,3 miliardi) e sul fondo “Loss and Damage” per riparare perdite e danni subiti dagli Stati più vulnerabili, istituito alla COP27 di Sharm El-Sheikh e i cui meccanismi di funzionamento saranno definiti alla COP28.
I Paesi africani presenti hanno inoltre chiesto una moratoria di dieci anni, una rinegoziazione del debito estero e una maggiore disponibilità di finanziamenti da parte delle banche di sviluppo per l’adattamento alla crisi climatica. L’Africa subsahariana paga infatti interessi ben più alti sui prestiti rispetto alle nazioni ricche e, secondo il nuovo report “Africa’s Pulse” della Banca mondiale, nel 2023 ben ventuno Paesi della regione su quarantotto sono già in sofferenza debitoria o ad alto rischio.
Utilizzare i crediti di carbonio: una proposta del Summit controversa e pericolosa per l’ambiente e le comunità
Per attirare più finanziamenti, l’Africa Climate Summit, e in particolare il presidente del Kenya William Ruto, hanno sostenuto l’opportunità di sfruttare i serbatoi naturali di carbonio africani, ovvero le risorse che intrappolano l’anidride carbonica come foreste, savane e wetland (zone umide e palustri fra cui le foreste di mangrovie), per contribuire alla decarbonizzazione globale, facilitando il mercato dei crediti di carbonio nel continente.
I crediti carbonici sono quote che Stati e aziende comprano per compensare le loro emissioni di gas serra. Un credito di carbonio equivale a una tonnellata di anidride carbonica o a una quantità equivalente di un altro gas serra. La compensazione avviene riducendo o sequestrando l’anidride carbonica (come attraverso la riforestazione) o evitando le emissioni (ad esempio astenendosi dalla deforestazione). Secondo gli ambientalisti, questo meccanismo in realtà non fa altro che permettere alle aziende di continuare a inquinare e, quindi, non contrasta la crisi climatica.
Secondo diversi esperti, molti progetti possono avere un impatto negativo sulla biodiversità e sui diritti dei popoli nativi oppure non riescono a conteggiare in modo accurato le emissioni che si propongono di ridurre o evitare. Quest’ultimo caso, come ha mostrato un’indagine di The Guardian, Die Zeit e SourceMaterial, riguarda più del 90% dei crediti relativi alle foreste pluviali rilasciati da Verra, l’azienda che certifica tre quarti dei progetti nel mercato volontario delle compensazioni.
Un progetto controverso, denunciato da Survival International nel rapporto “These people have sold our air”, è il “Northern Kenya Grassland Carbon Project”, gestito dall’organizzazione kenyota Northern Rangelands Trust (NRT) e che coinvolge quasi 2milioni di ettari di riserve per il pascolo nel Nord del Kenya, abitate da popolazioni di etnia maasai, samburu, borana e rendille. Il progetto si basa sulla rotazione delle zone di pascolo per le mandrie, in modo che la vegetazione ricresca in quelle a riposo, intrappolando il carbonio.
Questo pascolo a rotazione pianificata è stato imposto dall’alto ai pastori locali, distruggendo la loro tradizione di migrare seguendo le piogge nei periodi di siccità per poter sopravvivere, e i ricavi del progetto non sono stati a loro distribuiti in modo trasparente. Inoltre, non ci sono evidenze empiriche che la rotazione dei pascoli permetta di sequestrare carbonio aggiuntivo rispetto al pascolo tradizionale e il progetto in realtà non riesce a controllare tutti gli spostamenti delle mandrie all’interno dei propri confini e, quindi, a quantificare in modo preciso l’anidride carbonica rimossa.
Un altro report, “Green Colonialism 2.0: tree plantations and carbon offsets in Africa” dell’Oakland Institute, si concentra sul fondo “African Forestry Impact Platform”, che ha lo scopo di trasformare la forestazione “sostenibile” nel continente africano in una risorsa su cui investire. La compagnia norvegese Green Resources, la prima aderente al fondo, ha piantato circa 38mila ettari di monocolture non autoctone di pino ed eucalipto in Uganda, Tanzania e Mozambico. Questo ha distrutto la biodiversità, che fiorisce solo in foreste composite, e contaminato il suolo e l’acqua a causa dell’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici.
La terra inoltre è stata sottratta con accordi poco trasparenti alle comunità locali, che facevano affidamento su di essa per l’agricoltura, la pastorizia e altre attività vitali, minando la loro sicurezza alimentare. Infine, in Uganda, dopo diversi anni i pini piantati sono stati abbattuti per fare legname, vanificando completamente lo scopo di sequestrare anidride carbonica (per cui è necessario che le foreste piantate rimangano almeno per cento anni).
Il report dell’Oakland Institute, così come le organizzazioni della società civile radunatesi a Nairobi durante il summit, esprime la preoccupazione che i mercati dei crediti di carbonio si traducano nello sfruttamento delle risorse naturali africane per sostenere la crescita economica delle aziende nei Paesi ricchi, in un retaggio di estrattivismo coloniale già presente in altri casi. Inoltre, denuncia conflitti di interesse nelle stesse aziende responsabili della certificazione: ad esempio, più è grande il numero di crediti certificati, più i guadagni di Verra aumentano.
Aniebiet Inyang Ntui: i crediti possono essere utili ma solo se usati correttamente insieme ad altri strumenti
“Gli ambientalisti hanno ragione a essere preoccupati per il potenziale utilizzo dei crediti di carbonio come ‘permessi per inquinare’. – afferma ad Agenda17 Aniebiet Inyang Ntui, diplomatica e professoressa all’Università di Calabar (Nigeria) -. Tuttavia, è importante ricordare che essi sono solo uno degli strumenti utilizzati per combattere il cambiamento climatico. Se attuati correttamente, possono essere un modo efficace per ridurre le emissioni e favorire lo sviluppo sostenibile in Africa. Esistono alcuni casi positivi di progetti di crediti carbonici nel continente, ad esempio il ‘Ghana Cocoa Forest REDD+ Project’ e il ‘Rwanda Improved Cooking Stoves Project’.
Il primo progetto protegge oltre 200mila ettari di foresta pluviale in Ghana, contribuendo a ridurre la deforestazione e a preservare la biodiversità, e lavora con i coltivatori di cacao locali, per migliorare le loro pratiche agricole sostenibili e i loro mezzi di sussistenza. Il secondo progetto distribuisce alle famiglie ruandesi fornelli da cucina più efficienti, che contribuiscono a ridurre il consumo di legna da ardere e l’inquinamento dell’aria negli ambienti interni, creando anche posti di lavoro per la popolazione locale che li produce e vende.”
“I mercati dei crediti carbonici nel continente sono ancora nelle prime fasi di sviluppo – commenta Ntui -. Purtroppo, c’è il rischio che possano essere sfruttati dal Nord del Mondo a spese dell’Africa e che i ricavi cadano nelle mani delle élite o delle aziende straniere. Per questo è importante assicurare che le comunità locali siano coinvolte nella pianificazione e nell’attuazione dei progetti, che una quota dei ricavi sia distribuita loro equamente, che i progetti stessi siano allineati con gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Africa e che i mercati siano trasparenti e ben regolamentati.
L’alleanza proposta tra Brasile, Repubblica democratica del Congo e Indonesia, detta ‘Opec per le foreste pluviali’, potrebbe essere un esempio positivo di progetto di compensazione delle emissioni, anche se i dettagli non sono ancora stati finalizzati. Sarà importante garantire che il progetto sia concepito e attuato in modo da proteggere i diritti delle comunità native e dell’ambiente.” L’alleanza punta a fare riconoscere al Mondo intero la nostra dipendenza dalle foreste pluviali. (1.Continua)