La transizione ecologica non può avvenire senza giustizia sociale Le città sono le maggiori responsabili dell’inquinamento. Ma secondo Farinella e Alietti di Unife  la pianificazione urbana senza equità non funziona

La transizione ecologica non può avvenire senza giustizia sociale

Le città sono le maggiori responsabili dell’inquinamento. Ma secondo Farinella e Alietti di Unife la pianificazione urbana senza equità non funziona

“Oggi chi vive nelle favelas lavora nei quartieri vicini, dove la ricca borghesia si serve di questi lavoratori per mantenere il proprio benessere. E si tratta delle stesse dinamiche che caratterizzano lo sviluppo a livello globale: molte città del Mondo sono strutturate in questo modo, e in esse si produce la ricchezza che serve a noi per prosperare, con una serie di conseguenze in termini di disuguaglianze sociali e ambientali.” Parte da questo quadro generale l’architetto Romeo Farinella per affrontare, con il sociologo Alfredo Alietti, il tema dell’ordine e del disordine urbano, come dimensioni che hanno accompagnato lo sviluppo delle nostre città e che sono oggi legate alle disuguaglianze sociali e ai temi della giustizia climatica.

“Credo anzitutto – ha affermato Farinella nel corso dell’incontro “(Dis)ordine urbano: sostenibilità o esclusione?”, quinto appuntamento del ciclo “Crisi climatica, sfruttamento e diritti umani” – che quella tra ordine e disordine, più che un’opposizione, sia una relazione di convivenza, stabilitasi quando il sistema capitalistico ha definito le regole di funzionamento del Mondo. 

Romeo Farinella, docente di Progettazione urbanistica presso l’Università di Ferrara (©Unife)

Con la rivoluzione industriale le città hanno iniziato a crescere velocemente. Già nel Settecento erano chiari i rapporti ordine-disordine al loro interno: da un lato la città borghese, ordinata, cuore della nuova vita economica, dall’altro quella misera e molto povera, in qualche modo disordinata, le cui condizioni erano però funzionali alla produzione del benessere e della ricchezza della città nel suo complesso.”

Le città al centro della lotta al cambiamento climatico e alle disuguaglianze sociali

Secondo le Nazioni unite, entro il 2050 la popolazione mondiale raggiungerà i 9,7 miliardi di persone, per arrivare a 11 miliardi entro la fine del secolo. Fino al 2009, a prevalere era la popolazione rurale, mentre oggi circa il 55% della popolazione del Pianeta vive in città, e si prevede che il livello di urbanizzazione possa raggiungere il 68% entro il 2050 – con aumenti significativi soprattutto in Cina, India e Nigeria.

Tuttavia, pur occupando meno del 2% del territorio mondiale, le città producono l’80% del Prodotto interno lordo (Pil) globale e oltre il 70% delle emissioni di anidride carbonica. Inoltre, quasi 1 miliardo di persone sono classificate come “poveri urbani” e vivono in baraccopoli, slum, favelas, in continuo aumento.

“Questa situazione – afferma Alietti – è piuttosto significativa. Anzitutto dobbiamo abbandonare lo sguardo eurocentrico, perché le realtà urbane sono tantissime e difficili da comparare. Premesso questo, come possiamo immaginarci percorsi di sostenibilità nelle città contemporanee? 

Alfredo Alietti, docente di Sociologia urbana presso l’Università di Ferrara (©Unife)

La sostenibilità è un concetto complesso, con molte sfaccettature e che necessita di strumenti di analisi sempre più integrati e multidisciplinari. Lo si vede bene nel circolo della sostenibilità, un approccio nel quale la complessità è evidente e che mostra come la costruzione di un’economia sostenibile debba essere supportata da molteplici fattori, a livello non solo economico, ma anche politico, culturale ed ecologico, altrimenti è impossibile attuare il cambiamento necessario.

Il circolo della sostenibilità è usato per studiare quanto una città sia prossima all’idea di sostenibilità (©wikipedia)

A fronte di questo, diventa indispensabile – continua Alietti – costruire un nuovo modello di governance, che si basa su un potere orizzontale in cui molteplici attori si uniscono e cercano di trovare un ordine in questo disordine. È un modello reticolare e decentrato, in cui tutti partecipano alla definizione di politiche per la sostenibilità e nel quale è costruita, e mantenuta nel tempo, la partecipazione, intesa come continua interazione tra il sapere scientifico e quello dei cittadini.”

Non si creano città sostenibili senza politiche di giustizia sociale 

“La giustizia ambientale – secondo il sociologo – deve inevitabilmente essere accompagnata dalla giustizia sociale. Non solo oggi, con la guerra alle porte dell’Europa: l’uragano Katrina, ad esempio, colpì soprattutto i più poveri e ogni anno centinaia di indigeni muoiono nel tentativo di difendere il proprio territorio. 

Anche i diritti umani, infatti, fanno parte del cosiddetto metabolismo urbano. Finché le disuguaglianze non si riducono, abbiamo poche speranze di incidere nell’implementazione delle politiche di sostenibilità. 

Quando parliamo di ordine, allora, parliamo di un tentativo di governare il disordine: si tratta cioè di essere in grado di mitigare una serie di elementi catastrofici e, in questo, è essenziale tenere conto della struttura e del contesto sociale.”

“Come comunità globale – conclude Farinella – abbiamo l’obiettivo di rendere le città sostenibili entro il 2030. Tale obiettivo pone finalità importantissime, ma del tutto irraggiungibili. Viste le enormi disuguaglianze di ricchezza, infatti, pensare che in così poco tempo le città e le comunità saranno sostenibili e inclusive significa essere ingenui. 

Andiamo infatti verso gli 8 miliardi di persone, che vivono in città spesso in condizioni di grande crisi ambientale, ad esempio quelle sviluppatesi in zone costiere e fluviali, e campo di forti disuguaglianze. 

Oggi purtroppo prevale una retorica ambientalista, o tecno-ecologista, che riempie le pagine dei giornali e che prospetta soluzioni molto affascinanti a livello estetico, ma estremamente selettive, presentate come in grado di contribuire alla lotta al cambiamento climatico. 

Ben vengano i progetti del futuro, come i boschi verticali o le città galleggianti, ma si tratta soprattutto di operazioni di mercato immobiliare non generalizzabili alla maggioranza della popolazione. La stampa, infatti, non può dire che Dubai City è il futuro delle città sostenibili, perché per costruirla sono morte molte persone emigrate da vicini Paesi poveri che hanno lavorato in condizioni drammatiche. Le condizioni in cui vivevano gli indigenti nella Londra del passato sono le stesse dei lavoratori che oggi costruiscono le città del futuro: come si può pensare che siano i nuovi modelli ecologici? 


Dobbiamo piuttosto ragionare in termini strutturali, e non cercare semplicemente di migliorare la situazione mantenendo però intatto l’assetto esistente. E’ necessario partire dalle aree critiche per risolvere i problemi, non generalizzare soluzioni inevitabilmente di nicchia. E, soprattutto, dovranno esserci livelli di governo globale fondati sulla cooperazione che si prendano in carico questi progetti e questi temi.”

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