Contro la città autoritaria. Lunga vita all’urbanità Coltiviamo spazi di gratuità nelle città

Contro la città autoritaria. Lunga vita all’urbanità

Coltiviamo spazi di gratuità nelle città

Un vecchio e celebre libro di Donald Norman, “La caffettiera del masochista. Il design degli oggetti quotidiani”, raccontava un mondo di oggetti che ci rende la vita difficile perché progettati male. Mi viene sempre in mente quando mi aggiro per piazze appena riqualificate dove le panchine stanno al sole, dove i materiali in pietra accrescono il calore nelle giornate estive, dove la luce è troppo intensa. Anche le città per come le progettiamo sanno essere masochiste. 

Alcune città richiederebbero non solamente delle mappe per muoversi ma vere e proprie istruzioni per l’uso per capire come funzionano. C’è un’infinità di regole scritte e non scritte da conoscere, abitudini e stili di vita, quartieri da frequentare e da non frequentare, orari in cui passeggiare e orari in cui è meglio non uscire di casa, zone turistiche da non avvicinare perché tutto è più caro, trattorie dove mangi come a casa che conosce solo chi ci abita. E soprattutto ci vorrebbe l’elenco delle cose che non si possono fare che, in genere, supera di gran lunga quello delle cose che si possono fare in una città. 

Una guida per la nostra sopravvivenza!

Un’architettura ostile genera una mappa della città piena di divieti

Vietato giocare a pallone, vietato il passaggio alle biciclette, vietata la consumazione di cibo per strada, vietato calpestare il prato, vietato entrare. È vietato. Ci vorrebbe Georges Perec, lo scrittore amante delle liste e degli elenchi, della descrizione delle cose, delle abitudini e degli spazi ordinari, per stendere un sensato “bestiario” degli spazi della negazione. D’altra parte, ognuno di noi potrebbe stendere il proprio elenco, perché non è difficile constatare come la negazione sia la cifra comune di tutte le strutture spaziali che ci circondano. 

“Non entrare e non bussare” leggo scritto sulle porte di un corridoio cieco, scandito da ingressi tutti uguali e ravvicinati, ciascuno per un diverso ambulatorio medico. Il monito si ripete ad ogni porta e struttura la disposizione dei corpi, le azioni, il mandato. “Spegni il cellulare e stai zitto”: leggo scritto sullo schermo del cinema all’inizio della proiezione, con un monito che – pur nella presunzione dell’ironia – suona di fatto minaccioso anche nelle piacevolezze del tempo libero. 

Dispositivi di negazione agiscono continuamente negli spazi che abitiamo e nascondono, cancellano, rimuovono. Chiudono, sigillano, oscurano. Confinano, isolano, separano. Immunizzano, precludono, sterilizzano. Di volta in volta è precluso il gioco ai bambini nei cortili condominiali, l’assembramento davanti a un locale, sedersi sui gradini del sagrato di una chiesa o dormire nello spazio pubblico su una panchina (anche se non hai un tetto), l’accesso ad un parco nelle ore serali, la vista al pubblico di una mensa per i poveri. O, per dirla con il suo rovescio, è proscritto il gioco, il vociare, il sedersi, il movimento, il sonno, la seduta, la povertà, le relazioni tra adolescenti.

Molte città si stanno dotando di “un’architettura ostile (o difensiva)”, studiata per inibire la presenza delle persone nello spazio pubblico. È la stessa vita pulsante della città a suscitare un istinto di controllo in certe componenti politiche e su alcune fasce della popolazione. 

Il bestiario degli spazi si arricchisce anno dopo anno: panchine con braccioli in mezzo che impediscono di potersi sdraiare, spunzoni anti-seduta disposti sulle soglie delle vetrine, spunzoni anti-skateboard, dissuasori ultrasonici che emettono un sibilo disturbante e percepibile solo dai ragazzi più giovani. Nella logica del decoro la città stessa gioca un ruolo cruciale, si negano in modo sistematico gli spazi di socialità che nascano fuori da un circuito commerciale, si sgomberano gli spazi occupati, si investe in modo massiccio in video-sorveglianza e lo spazio pubblico viene inibito ai ragazzi, ai non consumatori, ai poveri, ai senza-tetto.

Qui sta tutta la “negazione dell’idea stessa di urbanità” che è stata la cifra vincente delle città europee, una dimensione legata all’ospitalità dei luoghi, una predisposizione ad accogliere e facilitare le relazioni umane, lo scambio e la comunicazione tra diversi. Una dimensione legata alla qualità della convivenza civile, ad un’idea di cittadinanza inclusiva e tollerante. 

È l’urbanità dei comportamenti a far belle le città, non solo i monumenti

Ma se perdiamo questa urbanità che cosa rimarrà della nostra secolare cultura civile? Sono i comportamenti a fare belle le città, prima dei monumenti e delle piazze restaurate in stile. Ma dove si formano i nostri habitus da cittadini? Dove cresce in noi l’attitudine alla relazione e alla cooperazione? Dove diventiamo animali politici e civili? 

I ragazzi interiorizzano così fin da piccoli che le città sono circoli a pagamento e che per abitare un luogo bisogna pagare: per muoversi, per sedersi, per mangiare, per divertirsi, per fare sport, per trascorrere una sera con gli amici. 

Se vogliono incontrarsi ci sono i bar per gli spriz e gli aperitivi. Sedersi gratis. Sedersi all’ombra.Bere da una fontana. Giocare a palla in un cortile, fare un picnic in un parco urbano, giocare per strada senza pericoli, sono attività sempre più rare e sempre più difficili da vivere nelle città. I centri urbani sono sempre più simili per organizzazione e disciplina ad enormi centri commerciali, che allontanano chi non si adatta alle regole del commercio: via i ragazzi che occupano gli spazi pubblici senza consumare, lontano dalla vista di cittadini e dei turisti, i più poveri. 

Nella logica del decoro la città stessa gioca un ruolo cruciale, si negano in modo sistematico gli spazi di socialità che nascano fuori da un circuito commerciale, si sgomberano gli spazi occupati, si investe in modo massiccio in video-sorveglianza e lo spazio pubblico viene inibito ai ragazzi, ai non consumatori, ai poveri, ai senza-tetto.

Ci sono bellissime località balneari o lacustri dove ogni possibilità di movimento è a pagamento: il parcheggio se si arriva in auto, la tassa di soggiorno se si viene da fuori, l’albergo, l’ingresso nella stazione balneare e l’affitto di sdraio e lettino, i pranzi e le cene, e così via. Tutto ha un costo, anche l’accesso al mare. 

Lo stesso accade nelle città d’arte o nelle grandi metropoli. Me ne accorgo ogni volta che viaggio insieme ai miei studenti quando, dovendo ridurre le spese, i luoghi dove non si paga diventano fondamentali: i sagrati delle chiese, gli interni freschi e ombrosi delle cattedrali, quando l’ingresso non è a pagamento pure quello, i giardini pubblici e i parchi urbani, ma soltanto in alcune ore del giorno. E in città come Firenze mi accorgo che anche le chiese, trasformate in musei, sono ad accesso limitato. 

Nelle stazioni sono sempre più rare anche le sale d’aspetto gratuite dove sedersi in attesa di un treno. Se sono in viaggio e ho bisogno di un bagno, devo consumare qualcosa in un bar, per potere accedere ai servizi. Se un gruppo di ragazzi vuole incontrarsi cerca un posto comodo per un aperitivo, una pizzeria, un locale. Tutte cose ovviamente bellissime e salutari per l’economia del luogo e la vocazione turistica delle città, meno per il portafoglio e la qualità della vita. Non di solo consumo possono vivere i cittadini (e nemmeno i turisti).

La natura originaria delle città è di essere beni comuni, luoghi ospitali

Bisognerebbe riscrivere una grammatica del possibile, di quello che si può e si deve fare “gratuitamente” (e pare surreale pure doverlo scrivere fra virgolette) nello spazio pubblico, tracciare zonedi non consumo o della felicità dello spazio aperto”.

Perché forse ci siamo dimenticati che le città sono beni comuni e che se perdono questo carattere collettivo e condiviso perdono la loro natura originaria. Nella privatizzazione e commercializzazione degli spazi urbani sta tutta la negazione dell’idea stessa di urbanità che è stata la cifra vincente delle città europee, una dimensione legata all’ospitalità dei luoghi, una predisposizione ad accogliere e facilitare le relazioni umane, lo scambio e la comunicazione tra diversi. 

La cultura civile di una città si dovrebbe misurare contando tutte quelle cose che si possono fare “senza pagare” e tutti quei posti in cui si può stare gratuitamente. Quanti di questi luoghi ci vengono in mente?

Nel mio elenco di luoghi gratis metterei le bocciofile di periferia, gli oratori quando funzionano, le isole pedonali (ma solo se hanno panchine all’ombra degli alberi), i parchi giochi per i bambini ma solo se ombrosi e in terra battuta o prato. Le panchine all’ombra sono così rare dovunque da pensare di doverle candidarle davvero a patrimonio Unesco. I bagni pubblici, puliti.

Urge una contro-narrazione. Dovremmo individuare luoghi dove le cose si possono fare gratis e scriverlo a caratteri cubitali: in questo cortile si può giocare a palla; in questo bar puoi studiare tutto il pomeriggio; in questo parco puoi fare sport da solo o in gruppo; sul sagrato di questa Chiesa puoi sederti con gli amici e bere una birra. Questo fiume che attraversa la città è balneabile e puoi fare il bagno quando vuoi. In questo forno collettivo all’aperto puoi venire a cuocere il pane da casa. Questa biblioteca è aperta anche di sera e ci puoi venire con gli amici a studiare. Dopo le 20.00 i mezzi pubblici sono gratuiti per i ragazzi. Sono tutti slogan che raccontano casi veri, peccato solo che siano spazi tanto rari, mosche bianche in città sempre più a pagamento.

(Elena Granata parteciperà a Ferrara l’8 maggio all’incontro organizzato dal Forum Ferrara Partecipata “Cambiare la Città, cambiare il mondo. Le donne al centro della pianificazione urbana per nuovi modelli di convivenza”, introdotto da Dalia Bighinati)

(Contro la città autoritaria è il manifesto con cui il sociologo Alfredo Alietti e l’architetto Romeo Farinella hanno lanciato l’idea di un confronto interdisciplinare sui luoghi dell’abitare)

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