Nella storia della progressiva conquista da parte delle donne del diritto ad esprimersi in tutte le professioni, l’architettura è stata un baluardo piuttosto duro da conquistare. Tenute lontane dalla possibilità di progettare lo spazio pubblico, governato da sempre dal pensiero maschile, le donne hanno sviluppato nei secoli una cultura dell’abitare, che, trasformata in competenze progettuali, nel ‘900 è uscita dallo spazio privato ed ha espresso in più occasioni una qualità umana e professionale inconfondibile. Oggi offre alle richieste di cambiamento delle città, in un’ottica di sostenibilità e di inclusione, una visione radicalmente innovativa della rigenerazione urbana.
La premessa di questa urbanistica al femminile è un senso del vivere insieme che traduce in pietre, vetro, metalli e cemento, e quindi porta nelle strade, nelle piazze, negli edifici, la cura dei bisogni delle persone e il rispetto non formale dei diritti di tutte/i.
“Questa prospettiva decentrata e marginale – guardare il mondo dall’esperienza quotidiana e da fuori rispetto alle strutture di potere – costituisce oggi un punto di vista privilegiato perché solo da lì può nascere quel cambiamento radicale delle città di cui abbiamo bisogno” scrive in “Il senso delle donne per la città” la professoressa Elena Granata, docente di Urbanistica del Politecnico di Milano e vicepresidente del Comitato scientifico delle Settimane Sociali dei cattolici italiani.
Una città più vivibile è una città a misura di donne?
L’associazione Torino Città per le Donne, nata per promuovere spazi urbani a misura di tutte/i, punta l’indice “sull’impianto fordista di città realizzate a misura di uomini” e ne svela i condizionamenti. Le città odierne, per intenderci, plasmando spazi e comportamenti definiti da un modello unico di impronta maschilista, come ad esempio una pianificazione urbana centrata sul traffico automobilistico, contribuisce a costruire o a perpetuare stereotipi di genere: le donne in casa, gli uomini al lavoro e nella vita pubblica.
Per la geografa canadese Leslie Kern, la città delle donne è quella in cui “le barriere fisiche e sociali vengono smantellate, quella che mette al centro,e distribuisce in modo equo, la cura degli altri, della comunità, del pianeta” con la consapevolezza di poter rivoluzionare un modello di sviluppo e di convivenza ormai datato, che ha generato, accanto ad un indubbio progresso tecnologico e culturale, tanti egoismi, disuguaglianze e i mali non più accettabili del pianeta, come fferma nel suolavoro “La città femminista”.
“Non si tratta di sostituire spazi femminili a spazi maschili, ma di applicare una prospettiva femminista, cioè egualitaria, all’urbanistica e a qualsiasi altro ambito”. A dirlo è Lilia Giugni, ricercatrice italiana presso l’Università di Cambridge, co-fondatrice di GenPol, Gender & Policy Insights, think tank di cui è ceo. Per capire dove stanno andando con le loro politiche, gli urbanisti e i decisori pubblici dovrebbero sempre porsi, aggiunge, domande come: “Questo edificio chi va ad arricchire? Chi trarrà benefici da questo servizio? Questa politica urbana è realmente per tutti e tutte?”.
La città ideale non discrimina
A Vienna nei primi anni ‘90 del secolo scorso, aperti dalla mostra del 1991 intitolata “A chi appartiene lo spazio urbano. La quotidianità delle donne nella città”, i progetti di urbanistica femminista hanno rivoluzionato l’organizzazione e il funzionamento degli spazi pubblici con pedonalizzazioni allargate a interi quartieri, strade e parchi fruibili da tutti, grande attenzione al trasporto collettivo, contribuendo a definire l’immagine della città a misura di donna. Che vuol dire strade e piazze illuminate, spazi destinati non solamente al consumo, ma all’incontro e alle relazioni, una mobilità sicura e non inquinante, l’apertura di sportelli di ascolto in ogni quartiere e altre iniziative, presenti in Italia ne “Gli Stati generali delle donne”.
“Per le nostre città abbiamo bisogno di un pensiero nuovo, di creatività e di spazi che rispondano meglio ai nostri bisogni reali. Abbiamo bisogno di ospedali, scuole e spazi pubblici, dove le persone possano sentirsi accolte.” È questo il punto di vista di Elena Granata che parla di “Città che curano e che diventano determinanti non solo per il nostro modo di vivere lo spazio urbano, ma anche per il nostro essere cittadini partecipi di una comunità”.
Le buone pratiche delle città straniere
Nelle città europee guidate da donne, come Barcellona con Ada Colau, Parigi con Anne Hidalgo, sindaco e presidente di C40, i progetti di rigenerazione urbana hanno prodotto una sensibile trasformazione dei ritmi di vita e dei modelli di convivenza. Sono tappe di una trasformazione delle città che va nella direzione di una migliore qualità della vita. Tutte, è bene ricordarlo, hanno adottato il metodo della consultazione degli abitanti, per conoscerne le esigenze nell’ambito delle abitazioni, del traffico, della sicurezza, del tempo libero, della mobilità e del lavoro. Naturalmente prima di progettare e non dopo, come avviene in genere da noi.
(Contro la città autoritaria è il manifesto con cui il sociologo Alfredo Alietti e l’architetto Romeo Farinella hanno lanciato l’idea di un confronto interdisciplinare sui luoghi dell’abitare)