I trafficanti di esseri umani ora usano tecnologie digitali In Italia, per il crimine organizzato è la terza fonte di guadagno dopo armi e droga

I trafficanti di esseri umani ora usano tecnologie digitali

In Italia, per il crimine organizzato è la terza fonte di guadagno dopo armi e droga

Secondo l’ultimo report sulla tratta di esseri umani pubblicato di recente dall’Ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (United Nations Office on Drugs and Crime, UNODC), durante la pandemia è incrementato l’uso da parte dei trafficanti delle tecnologie digitali per reclutare e mantenere il controllo sulle proprie vittime, fenomeno definito cyber-trafficking.

Una vittima ogni 100mila, complice la pandemia 

A livello mondiale nel 2020 una persona su 100mila è stata vittima di tratta, ovvero di reclutamento attraverso la coercizione, l’inganno o l’abuso di potere a scopo di sfruttamento sessuale (38,7%), lavorativo (38,8%) o misto (10,3%), in attività criminali forzate (10,2%) e in misura minore in matrimoni forzati, accattonaggio, adozione illegale e prelievo di organi. Le vittime di sfruttamento sessuale sono principalmente donne e ragazze (91%), mentre per lo sfruttamento lavorativo sono uomini e ragazzi per due terzi e donne e ragazze per un terzo. 

In Italia, la tratta di esseri umani costituisce la terza fonte di guadagno per le organizzazioni criminali, dopo il traffico di armi e di droga. Secondo gli ultimi dati di Save the Children, le persone assistite dal sistema antitratta italiano nel 2021 sono state 1.911, provenienti soprattutto dalla Nigeria (65,6%) e in misura minore da altri Paesi dell’Africa sub-sahariana, Pakistan, Marocco, Bangladesh, Brasile e Romania. Il 48,9% delle vittime è stato destinato allo sfruttamento sessuale, il 18,8% a quello lavorativo e la restante percentuale a forme di sfruttamento altre o miste.

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Mappa delle principali forme di sfruttamento e dei profili delle vittime (© UNODC 2023)

La pandemia di Covid-19 ha esacerbato le disuguaglianze economiche e sociali che rendono le persone vulnerabili ai trafficanti, ha reso più complicata l’identificazione delle vittime, ha ostacolato il loro accesso all’assistenza e ha indebolito l’azione della giustizia. In particolare, le autorità di contrasto alla tratta si sono scontrate con l’affermarsi in maniera sempre maggiore di un nuovo metodo di reclutamento e sfruttamento basato sulle tecnologie digitali.

Il reclutamento avviene sui social più comuni

Il reclutamento destinato allo sfruttamento sessuale di donne e ragazze avviene soprattutto tramite la tecnica del “lover boy”: l’adescatore stabilisce un contatto con la potenziale vittima attraverso i social media o le app di appuntamenti, raccogliendo informazioni sulla sua situazione personale familiare e sui suoi interessi. Poi offre supporto e vicinanza, stabilendo poco a poco una relazione di fiducia e di controllo emotivo, che gli consente di raccogliere dati compromettenti sulla vittima (ad esempio foto intime) e di usarli per ricattarla e costringerla alla prostituzione. Questo metodo di controllo consente di separare il luogo dello sfruttamento dal luogo di coordinamento dove si trova il trafficante, che quindi è più difficilmente identificabile e perseguibile.

Per quanto riguarda lo sfruttamento lavorativo invece, come spiega ad Agenda17 Ruth McAlister, docente di Criminologia all’Università di Ulster (Irlanda del Nord) specializzata in crimine digitale, “i trafficanti pubblicano annunci di lavoro promettenti che in realtà sono completamente falsi (fake job advertisement) o che sono poco chiari circa il salario e il ruolo da ricoprire (deceptive job advertisement).” Questi annunci sono pubblicati non solo su siti contraffatti creati ad hoc, ma anche su siti classificati e sui social media nei gruppi di mutuo aiuto di migranti in cerca di lavoro.

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Ruth McAlister, docente di Criminologia all’Università di Ulster specializzata in crimine digitale (© Ruth McAlister)

In entrambi i tipi di sfruttamento, dunque, i trafficanti per il reclutamento non ricorrono per forza al Dark Web, ma più spesso alle piattaforme digitali più comuni. “Qualcuno potrebbe dire che contrastare il cyber-trafficking sia meno difficile rispetto alla tratta offline perché i trafficanti lasciano impronte digitali che possono essere individuate – continua la docente – tuttavia esiste tutto un sistema di intermediari che contraffanno i documenti e organizzano i viaggi delle vittime, per cui risulta difficile risalire al criminale principale.”

Il mondo digitale rende difficile affrontare il cyber-trafficking

Affrontare il cyber-trafficking comporta diverse difficoltà ben evidenziate da uno studio del Gruppo di esperti in azione contro la tratta di esseri umani (GRETA) svolto nel 2021, coinvolgendo gli Stati Parti contraenti della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani e le Organizzazioni non governative (Ong). Innanzitutto, monitorare le attività online, il cui numero è molto elevato e in costante crescita, richiede molto tempo e competenze digitali avanzate e può essere soggetto a restrizioni legali dovute alle leggi sulla privacy. 

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Le principali difficoltà nell’investigazione del cyber-trafficking riscontrate dagli Stati Parti contraenti della Convenzione (© GRETA 2022)

Identificare e investigare potenziali attività di tratta è difficile a causa della crittografia nelle comunicazioni online e del fatto che sia trafficanti che vittime possono usare soprannomi e reti virtuali private per rimanere anonimi. “Ad esempio – spiega McAlister – gli algoritmi dei social media che identificano i profili falsi basandosi su un determinato linguaggio funzionano solo finché il trafficante non inizia a usare parole in codice o non sposta la conversazione verso forme di comunicazione crittografate.”

Inoltre, è un problema la mancanza di risorse adeguate, sia in termini di unità specializzate all’interno delle forze dell’ordine che possiedano sufficienti conoscenze digitali, soprattutto a livello locale, sia per quanto riguarda la disponibilità di software di decrittazione. Anche avvocati e giudici non sempre hanno le competenze necessarie per utilizzare le evidenze digitali.

Il General Data Protection Regulation (GDPR), l’importante regolamento dell’Unione Europea (Ue) sulla protezione dei dati, purtroppo limita l’uso della tecnologia per investigare le tracce digitali lasciate trafficanti. “Il GDPR – afferma McAlister – permette di condividere i dati con le forze dell’ordine quando è necessario per il pubblico interesse, ma bisogna avere una base legittima.”

Infine, è difficile cooperare fra diverse Nazioni, soprattutto se sono al di fuori dell’Ue, e fra Nazioni e compagnie digitali private, poiché manca una cornice legale comune per perseguire il crimine del cyber-trafficking e non è semplice stabilire sotto la giurisdizione di quale Paese debba cadere un’evidenza digitale.

Usare le tecnologie digitali per contrastare i trafficanti

I trafficanti di esseri umani hanno imparato in fretta a sfruttare le tecnologie digitali nate a fin di bene, come la crittografia e le norme sulla privacy, per sfuggire all’identificazione e portare avanti lo sfruttamento. Considerando che sempre più persone, fra cui minori, avranno in futuro accesso al mondo digitale, se non si imparerà a utilizzare queste stesse tecnologie per combattere la tratta, il fenomeno non potrà che peggiorare.

È importante addestrare le unità investigative all’interno delle forze dell’ordine all’analisi dei Big Data, all’uso di software di decrittazione e di web-crawler (software che raccolgono dati da Internet) per analizzare la rete, all’utilizzo dei social media per ricostruire la rete di contatti di un trafficante o di una vittima, all’infiltrazione in network criminali sotto copertura e all’Open Source Intelligence, ovvero alla raccolta di dati da fonti pubblicamente disponibili online riguardo le condizioni di vita e la situazione finanziaria di una persona, per identificare categorie a rischio.

Tuttavia, l’uso di questi strumenti di tracciamento, come anche del riconoscimento facciale (molto usato nei casi di sfruttamento sessuale minorile), può risultare invasivo nei confronti della privacy delle persone. Perciò è importante anche addestrare gli investigatori a maneggiare i dati sensibili delle vittime nel rispetto dei regolamenti sulla privacy, soprattutto quando si tratta di condividerli con altri Paesi o agenzie, e a chiedere sempre il loro consenso.

Secondo lo studio di GRETA, i regolamenti esistenti sulla privacy dovrebbero essere aggiornati per tenere maggiormente conto del cyber-trafficking e bisognerebbe introdurre legislazioni apposite per le investigazioni digitali, che regolino anche lo scambio di informazioni fra i provider di Internet o le compagnie private e le autorità. Per regolare l’uso degli algoritmi di sorveglianza e contrastare contraffazione e contenuti illegali, l’anno scorso l’Ue ha approvato il Digital Services Act.

Infine, le tecnologie digitali possono essere anche usate, come già avviene in alcuni Paesi, per creare sistemi tramite cui gli utenti di Internet possono segnalare contenuti o siti che ritengono sospetti, per istituire meccanismi che permettano alle vittime di auto-identificarsi e ricevere assistenza e per diffondere campagne di sensibilizzazione mirate ai gruppi a rischio.

“Non bisogna comunque dimenticare – conclude McAlister – che la tecnologia da sola non può risolvere il problema della tratta di esseri umani, ma bisogna affrontare le cause strutturali profonde quali le disuguaglianze, le politiche migratorie restrittive e la mancanza di opportunità.”

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