Le parole e le cose – Pace e pacifismo

Le parole e le cose – Pace e pacifismo

La buona notizia, in questo tempo drammatico  per le tante guerre in atto (e quella in Ucraina non è certo la peggiore),  è che presso l’Ateneo di Ferrara si è costituito un Laboratorio di studio sulla Pace. L’iniziativa, nata all’interno della rete delle università per la pace RUNIPace, dà concretezza a un impegno che coinvolge soggetti provenienti da differenti esperienze e competenze interdisciplinari.

Con la riflessione su Pace e Pacifismo, i responsabili dell’iniziativa ci forniscono qui le coordinate del loro progetto, a partire da un assunto: è un “Laboratorio di studio sulla Pace, non sulle paci”.   

   

Dopo l’inizio della guerra sulle soglie di casa, in Ucraina, nel febbraio del 2022, l’Europa è tornata a discutere e a interrogarsi sul significato e sul valore della pace; della pace intesa come convivenza tra gli Stati, che non sfoci nel conflitto armato (e qual è il prezzo che per essa è moralmente e politicamente giusto pagare, come individui e come “comunità”); e della pace intesa come superamento di qualsivoglia conflitto etnico, religioso, sociale e culturale che comporti o rischi di risolversi in un confronto armato, anche all’interno dei singoli Stati o comunque aldilà della pura e semplice contrapposizione tra Stati. 

Le due questioni si sovrappongono solo in parte e hanno risvolti ampi in ambito filosofico, storico, giuridico, economico (con riflessi importanti nella storia delle letterature, delle arti e, naturalmente, delle scienze umane) per poter essere anche solo abbozzate in questa sede.

 Quello che intendiamo qui proporre è una breve riflessione sul rapporto tra pace e pacifismo, sulla liceità e sulla validità di un approccio al conflitto umano che rifiuti il ricorso alle armi. Di recente, infatti, esso è stato fortemente contestato alla luce di tale retorica: di fronte ad un’aggressione in cui venga violato lo spazio territoriale di uno Stato sovrano, è “giusto” invocare soluzioni pacifiche del conflitto e adoperarsi ad esse?

La pace del Re: è possibile la Pace senza Impero?

Nel 387/386 a.C. la Pace di Antalcida (un accordo che oggi si definirebbe ‘multilaterale’) segnò un passo verso una nuova concezione dei rapporti tra gli Stati nel Mediterraneo orientale. 

Per la prima volta nel mondo greco si arrivava all’idea di ‘pace comune’ (koiné eirene): nel regolare i rapporti tra le varie città greche, e tra ognuna di esse e il Gran Re persiano, la pace diveniva status permanente e condiviso, nel rispetto formale dell’indipendenza di ciascuna città-Stato e, va da sé, dell’Impero achemenide. 

Tale accordo è comunque noto anche come ‘Pace del Re’: all’inquieto e tumultuoso mondo greco, su cui allora Sparta esercitava la sua supremazia, furono imposte delle condizioni alquanto gravose (soprattutto riguardo alle poleis greche dell’Asia minore) dal sovrano di Persia Artaserse II; e del resto, quel fragile equilibrio andò presto in pezzi per l’emergere di nuovi conflitti per l’egemonia sulla Grecia. 

Ancora, il concetto di pax romana è indissolubilmente legato al ruolo dominante dell’Impero fondato da Augusto: esso si fa garante di una condizione di pace (che significa sicurezza e stabilità di rapporti tra le varie regioni, entità etniche, poleis o anche, al di fuori dei confini, Stati satelliti formalmente indipendenti) al prezzo della cessione di prerogative indissolubilmente legate (in ambito politico, economico, militare) all’esercizio di una reale autonomia, all’interno dei confini, o indipendenza, al di fuori di essi.

Già nell’antichità era chiaro il rapporto sofferto che esiste tra Pace e Dominio: è conciliabile la ‘pace comune’ con una sovranità che si distribuisce in modo ‘plurale’, in tante entità statuali, oppure essa è realizzabile solo sotto o comunque grazie all’egemonia di un ‘Impero universale’?

Pace e democrazia

Collegato, ma ben distinto, è il problema del rapporto tra Pace e Democrazia: l’esercizio di diritti politici fondamentali da parte del corpo della cittadinanza, soprattutto il potere che esso ha di eleggere i suoi rappresentanti all’interno degli organi legislativi o, pure indirettamente, di governo, è di per sé stesso garanzia di una maggiore ragionevolezza e misura nel ricorso allo strumento bellico rispetto a quanto avviene nei regimi autocratici? 

Di nuovo, se ‘pensiamo storicamente’, e a partire dalle vicende politiche e militari nel mondo classico mediterraneo, la risposta è perlomeno incerta. Studiosi come Luciano Canfora hanno dimostrato la natura profondamente e violentemente conflittuale (al suo interno) e imperialistica (nei rapporti con le altre poleis) del regime basato sulla ‘forza dominante del popolo’ (demokratía) ad Atene. 

Del resto, la novità della ‘Pace del Re’ si percepisce pienamente solo se si considera che le città-stato greche erano organismi tutti costruiti per la guerra, non stato di eccezione, ma strumento comune di regolazione dei conflitti interni insieme e forse prima ancora che dei rapporti con l’‘estero’. Democrazia, guerra di rapina per assicurare cespiti di guadagno ai ceti dominanti e benessere generale alla propria polis, brutalità e sfruttamento delle stesse città alleate fanno parte, in un quadro coerente, di una medesima concezione culturale. 

Nella guerra tra Atene e Sparta si sperimenta pure una contrapposizione totale tra due ‘blocchi’, due coalizioni che si affrontano e che rappresentano interessi territoriali, politici, economici molto diversi: la guerra diventa conflitto logorante, di posizione, spesso non portato al ‘cuore’ dello schieramento nemico, ma in aree periferiche, nel territorio delle poleis alleate. 

Pur senza volere forzare la mano nel confronto tra realtà storiche lontanissime, troppe ed evidenti sono le analogie con quanto avviene nell’età del colonialismo europeo prima, della guerra fredda e dell’imperialismo americano in quest’ultimo secolo.

Se il popolo (demos), anche consapevole del valore delle istituzioni democratiche, dei propri diritti civili, politici e sociali, accetta come ‘normale’ il Dominio, o anche solo rimane indifferente di fronte allo sfruttamento degli altri popoli, alla rapacità delle guerre coloniali e di quelle condotte per procura, per difendere lucrose rendite di posizione del proprio Paese in luoghi apparentemente esotici, se il popolo non considera legittimi gli interessi di Paesi rivali o perfino antagonisti negli equilibri mondiali, allora democrazia non significa pace. Non c’è alternativa ad una rivoluzione culturale: il demos, oltre a rifiutare per quel che direttamente lo concerne l’orrore del confronto bellico, deve acquisire una coscienza della globalità del conflitto, sullo scenario mondiale.

L’Europa come istituzione di pace: un’occasione (già) mancata?

Ai pionieri e fondatori dell’Unione europea, sulle macerie della II Guerra mondiale, i due aspetti di cui abbiamo parlato nei paragrafi precedenti erano ben noti e oggetto di una profonda riflessione. 

Il presupposto del manifesto di Ventotene era che ogni popolo europeo riconoscesse come legittimi il punto di vista e gli interessi degli altri; di pari passo con la democratizzazione non solo delle istituzioni, ma anche della cultura politica diffusa, questo doveva portare a riconoscere che, demandando ad un superiore organismo comune europeo la sintesi degli eventuali conflitti, si evitava il rischio di nuove deflagrazioni, si assicurava la tutela degli interessi comuni e si creavano le basi per una convivenza che aveva i suoi presupposti, del resto, in una storia e in una cultura largamente condivise. 

Insomma, un organismo sovranazionale (e si discuteva già allora sul suo carattere federale o confederale) doveva fungere da camera di compensazione del conflitto: esso comportava un’inevitabile e progressiva sottrazione di sovranità ai singoli Stati, ma nel quadro di una altrettanto progressiva democratizzazione e della acquisizione da parte di ogni cittadino europeo del rifiuto della guerra e di una cultura solidale con tutti i popoli che via via andavano ad aggiungersi alla Comunità prima, all’Unione dopo.

L’Europa (intesa come ‘casa comune’ degli europei, il sogno di Altiero Spinelli) è forse davvero già morta a Sarajevo, nella prima metà degli anni ’90. Di fronte all’evento traumatico di un conflitto armato su vasta scala che si ripresentava dopo la fine della II Guerra mondiale sul continente europeo, la UE non riuscì a parlare con voce unica e la dissoluzione della Jugoslavia divenne il grande gioco in cui ognuno degli Stati più potenti dell’Unione fece la sua partita; finché non vi entrarono in modo decisivo altri attori dell’Occidente ‘atlantico’ (in primo luogo la NATO e, di nuovo, le armi, non la diplomazia).

Il suicidio di Alexander Langer è l’evento simbolico della fine di un’illusione. È impressionante vedere a tanti anni di distanza il ripetersi di certe situazioni riguardo ai conflitti lasciati aperti dal crollo dei regimi dell’Est Europa dopo il 1989: la UE non ha, sostanzialmente, svolto alcun ruolo comune nel corso della lunga crisi del Donbass e più in generale nell’aprire vie di dialogo per la risoluzione delle tante aree di crisi ‘dimenticate’ nei Balcani o nel Caucaso (si pensi alla Georgia, al conflitto armeno-azero etc.).

Impero e coscienza collettiva: il pacifismo è antagonismo.

Se allarghiamo lo sguardo al di fuori del nostro continente, ci accorgiamo che sono decine i teatri di guerra nel mondo; e il più importante degli organismi sovranazionali, l’Onu, deputato in primo luogo esattamente alla prevenzione e alla risoluzione dei conflitti armati, si è sempre più rivelato strumento largamente insufficiente a tale compito. 

Il sistema di potere economico e finanziario creatosi nel mondo, da un lato, ha abbattuto le frontiere, reso assai più debole il ruolo dei governi nazionali e globalizzato non solo la produzione, il commercio, i flussi di denaro, ma anche i conflitti (tra capitale e lavoro, capitale e ambiente, capitale e rappresentanza politica…); dall’altro, però (e la contraddizione è solo apparente), ha moltiplicato le tensioni regionali e i nazionalismi, che nascono dall’esigenza di guadagnare una nicchia, una ‘rendita di posizione’ nel ridisegnarsi degli equilibri su scala mondale, nonché nella nuova, spesso brutale ridistribuzione delle sfere di influenza tra il vecchio mondo occidentale ed atlantico e le nuove potenze emergenti. 

In questo contesto, il pensiero pacifista si pone come approccio radicale e razionale ai problemi, come sguardo totalmente ‘altro’ rispetto ai meccanismi di autoperpetuazione del Dominio. Esso non può che vivere nella considerazione della irriducibile complessità che il conflitto esprime, ed intende affrontarlo per individuare tutte le soluzioni possibili perché esso non sfoci in confronto armato; o, una volta che questo sia avvenuto, perché sia riportato sul piano del dialogo e della diplomazia. Alla voce di poteri mondiali che agiscono per gli interessi di ristrette élites deve rispondere la voce di un umanesimo radicale e parimenti globale, che ponga al centro l’idea di una ‘democrazia integrale’. 

Il pacifismo, mettendo al centro il rifiuto delle armi, si pone l’obiettivo visionario che ogni cittadino del mondo senta come suo ogni conflitto aperto nel mondo: che la coscienza individuale e collettiva non solo in Occidente, ma nel mondo intero, si senta chiamata in causa non solo per la tragedia ucraina, ma per ogni e più lontano teatro di guerra, che sia il Darfur, il Congo o il Mozambico, l’Afghanistan o il Kurdistan e la Palestina. 

Il pacifismo è inscindibile da un’idea di formazione, di educazione alla pace dei popoli: se il rifiuto delle armi diviene bene condiviso, gestione del conflitto come instancabile ascolto dell’altro e delle ragioni di tutti, cura per il mondo ove ritorna il rischio sempre più concreto della follia nucleare (il gigantesco ‘rimosso’ del pensiero politico dopo la caduta del Muro), percezione del legame perverso tra guerre ‘regionali’ o globali e interesse particolare, di pochi, di apparati finanziari, industriali e militari, tra sfruttamento e devastazione dei rapporti sociali e dell’ambiente, allora si potrà sperare nella creazione dal basso di un contropotere mondiale ad un Impero tutto costruito per la guerra. 

Il nuovo alterglobalismo può rivivere accanto ai disertori ucraini e russi, nelle carovane della Pace, nella voce di chi manifesta e chiede pace nella giustizia, nella dignità e nella sicurezza di tutte e di tutti.

Abbiamo iniziato questo articolo decentrando il nostro sguardo e mettendoci nella testa di chi, oggi, continua a chiedersi: “di fronte ad un’aggressione in cui venga violato lo spazio territoriale di uno Stato sovrano, è ‘giusto’ invocare soluzioni pacifiche del conflitto e adoperarsi ad esse?”.  La nostra impressione è che coloro che cercano continue ‘giustificazioni’ ai tanti conflitti bellici che uccidono il nostro Pianeta non facciano che appellarsi a ciò che il filosofo Agostino Cera, in un articolo dal titolo “Guerre e paci, ovvero per una ‘guerra sostenibile” chiama ‘pace giusta’. Per questi ultimi, “c’è pace e pace”, ricorda Cera, e la sola da prendere in considerazione è quella ‘giusta’. A nome del suo valore supremo, di conseguenza, è possibile ritenere necessario l’uso di altri strumenti, anche quelli nucleari. Come ricorda Cera, per loro la guerra non sarebbe altro, per paradosso, che “il perseguimento della pace – giusta – con altri mezzi”. Noi, all’opposto, crediamo che la pace sia una, indiscutibile, singolare e antitetica a ogni conflitto, e per questo ‘antagonista’; e anche per questo nella nostra Università abbiamo sentito la necessità di dare vita a un Laboratorio di studio sulla Pace, e non sulle paci.

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