Sovranità alimentare: restituire ai popoli indipendenza nel cibo e in agricoltura, secondo Barbara Nappini, presidente Slow Food Italia Nel nostro Paese stop allo spreco e salvaguardare paesaggio e benessere animale

Sovranità alimentare: restituire ai popoli indipendenza nel cibo e in agricoltura, secondo Barbara Nappini, presidente Slow Food Italia

Nel nostro Paese stop allo spreco e salvaguardare paesaggio e benessere animale

Il termine di sovranità alimentare è tornato agli onori della cronaca lo scorso ottobre quando il Governo italiano, appena insediato, ha modificato il nome del Ministero delle risorse agricole in “Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste”.

Sul tema abbiamo intervistato Barbara Nappini, presidente Slow Food Italia. Barbara  è stata eletta nel 2021, ed è la prima presidente donna in trent’anni anni di vita dell’associazione. Slow Food è un’associazione no profit, presente in 150 Paesi di quattro continenti, impegnata a ridare il giusto valore al cibo, nel rispetto di chi produce, in armonia con ambiente ed ecosistemi, grazie ai saperi di cui sono custodi territori e tradizioni locali. È l’associazione che più di ogni altra ha contribuito a fare conoscere la sovranità alimentare nel nostro Paese.

Cosa significa sovranità alimentare oggi per Slow Food?

“Si pensa che la sovranità alimentare riguardi soltanto il made in Italy e le sue eccellenze (Parmigiano Reggiano, prosciutto di Parma…) o zone molto povere dell’Africa e del Sud America, in cui la sovranità alimentare e venuta meno. In realtà si tratta di un tema di interesse globale, introdotto e utilizzato primariamente dalla Via Campesina, un’organizzazione che riunisce contadini ed agricoltori di tutto il mondo

Nel 1996 La Via Campesina ha coniato il concetto di Sovranità alimentare come il diritto dei popoli a definire le proprie politiche alimentari e modelli di agricoltura sostenibile basata sulla piccola e media produzione (© terranuova.it)

La sovranità alimentare, dunque, riguarda il diritto dei popoli a determinare le proprie politiche alimentari ed agricole, il diritto ad avere un cibo adeguato a 360 gradi: dalla sicurezza nutrizionale al profilo culturale e religioso.

Tale concetto mette al centro delle politiche il bene dei popoli, il bene comune intorno al quale deve far perno tutto ciò che riguarda la  sovranità alimentare. 

Quando si parla di cibo, il bene comune è un tema cruciale, perché per produrre il cibo si attinge a beni comuni come la terra fertile e l’acqua che sono beni finiti, da qui la necessità di porre al centro l’attenzione all’utilizzo delle risorse. 

Parimenti le politiche agricole, strettamente legate all’ alimentazione, devono anteporre il bene delle popolazioni agli interessi particolari, privati che spesso hanno prevalso. Questa è la sovranità alimentare.  

In Italia è essenziale porre la giusta attenzione anche al tipo di colture praticate e al loro impatto sul terreno, sulla fertilità dei suoli, ma anche sul paesaggio. Un esempio è l’area collinare toscana a mezza costa del massiccio del Pratomagno dove si pratica un’ olivicoltura, ormai secolare, fatta su terrazzamenti. Si tratta di un’ olivicoltura difficile ma che consente a tutt’oggi la sussistenza delle comunità della zona, mantiene un patrimonio paesaggistico meta di visite da tutto il mondo e contribuisce in modo essenziale alla stabilità idrogeologica dell’area.   

Da parte degli olivicoltori è, quindi, forte la richiesta della valorizzazione e sostegno del loro lavoro consapevoli delle ricadute positive in ambito sociale, ambientale, paesaggistico, turistico ed economico. 

Ne consegue che è importante  riconoscere e tutelare il lavoro di agricoltori che abitano borghi o frazioni che continueranno ad esistere finché vi sarà la possibilità di vivere mantenendosi con attività come quelle degli olivicoltori toscani che credono nel tipo di agricoltura che praticano. Questa è sovranità alimentare.”

Paesaggio terrazzato a ulivi tipico della Toscana con un valore produttivo ambientale, storico, culturale e sociale. (© olivicolturaprofessionale.com)

Come si pone  Slow Food rispetto alla politica agricola europea e Italiana?

“Rispetto alle politiche agricole  sono stati fatti alcuni passi avanti ma la situazione in Italia e in Europa è molto lontana da quanto  vorremmo. Il nostro impegno è sempre quello di tenere molto alta l’asticella della discussione nella società e continuare a chiedere di più. 

Il 2022 ha segnato un anno importante per  Slow Food con l’inserimento della parola biodiversità nella Costituzione italiana, inoltre è stata approvata la legge sul biologico, una legge che arriva con molto ritardo, alla quale lavoravamo da decenni con la Commissione agricoltura in Parlamento. e che comunque non basta.

A fine anno abbiamo poi salutato l’istituzione di questa nuova denominazione del Ministero dell’Agricoltura con l’aggiunta di sovranità alimentare circa la quale continuiamo a voler dire la nostra, sia sul significato che  su come si realizza.

Anche rispetto alle normative europee continuiamo a chiedere di più, ad esempio stiamo facendo un lavoro importante sul tema degli allevamenti, forti del fatto che c’è maggiore sensibilità nelle persone rispetto alle condizioni degli animali negli allevamenti intensivi.”

Cosa comporta questa diversa sensibilità rispetto agli animali?

“Le normative in tema di benessere animale vanno migliorate, passando dal concetto di benessere animale, troppo centrato su una dimensione antropocentrica (massaggi, musica…) al concetto di maggior  rispetto. Non basta robotizzare il rifornimento dell’acqua o dei mangimi, o che venga trasmessa musica classica negli allevamenti. Noi affermiamo con certezza che bisogna drasticamente ridurre il numero degli animali. In tutta la storia dell’uomo non c’è mai stato un numero tanto elevato di animali allevati si, parla di miliardi e miliardi di capi.”

Barbara Nappini, presidente Slow Food Italia.
(© ansa.it)

“Anche in campo zootecnico bisogna incrementare la biodiversità piuttosto che l’omologazione genetica come avviene negli allevamenti intensivi dove si promuove una selezione genetica molto spinta tale da valorizzare alcune caratteristiche particolarmente funzionali all’industria. Ma questo è esattamente l’opposto di biodiversità e rende gli animali estremamente fragili e particolarmente soggetti a malattie. Lo abbiamo visto anche nella diffusione delle zoonosi.”

Per raggiungere l’obiettivo Fame zero come va orientata la produzione di alimenti secondo Slow Food?

“Slow Food Italia è impegnato a fare un lavoro di approfondimento e di  sollecitazione verso i decisori politici per spostare il focus dal produrre di più, lo slogan della rivoluzione verde degli anni Sessanta,  a produrre meglio evitando pratiche agronomiche dimostratesi sbagliate come  l’eccessiva meccanizzazione e l’eccessivo consumo di fertilizzanti e antipatogeni di sintesi che hanno impoverito molto i terreni. In Italia la media dei terreni agricoli registra appena l’uno per cento di carbonio mentre per essere fertile un terreno deve contenerne almeno il 3%, quindi siamo un passo prima della desertificazione. 

Inoltre, a fronte dell’Obiettivo Onu fame zero nel 2030, trovo insopportabile che ancor oggi quasi un miliardo di persone  muoia di fame, ed è ancor più insopportabile sapere dell’ingente quantità di cibo sprecato, tale da potere sfamare ben quattro volte chi non ha regolare accesso al cibo. Recuperando gli sprechi, secondo la Fao sarebbe possibile sfamare circa 2 miliardi di persone in tutto il pianeta. 

Questo è il vero focus. Questa è la vera transizione ecologica, a nostro avviso, che è necessariamente anche sociale. Non importa produrre di più, bisogna produrre meglio e distribuire meglio.”

Quale è il ruolo delle donne nella realizzazione della sovranità alimentare e quanto questa può contribuire al raggiungimento della parità di genere?

“Quello della parità di genere è un tema che mi sta moltissimo a cuore, credo che le donne abbiano un ruolo cruciale in un momento come questo che richiede di cambiare focus, modello di sviluppo e  dinamiche relazionali tra le persone all’interno delle comunità. 

Viviamo in una società fortemente improntata alla competizione dove viene premiato, chi prevarica meglio e con più entusiasmo l’altro. Quasi il 30% delle imprese agricole è costituito da titolari donne, eppure la rappresentanza nel settore è tuttora pressoché interamente maschile.

Tendenzialmente dovremmo passare a modelli relazionali e comunicativi che sono più femminili dal punto di vista culturale, cioè basati sulla comprensione, sull’ascolto. Modelli capaci di valorizzare anche le differenze, senza l’ansia di sembrare migliore o far sembrare peggiore il mio prossimo.

All’interno di  Slow Food, moltissime esperienze particolarmente innovative, con risvolti sociali spiccati, sono portati avanti da donne e non credo che sia un caso. 

Spesso si tratta di donne che hanno anche dei percorsi di vita importanti, che hanno un’istruzione superiore, che hanno fatto anche esperienze all’estero e che comunque tornano a fare le casare, le allevatrici, le contadine, le viticoltrici o le olivicoltrici.

Non credo che ciò accada per caso, siamo in un momento in cui è sempre più diffusa la sensazione che qualcosa stia cambiando e che sia necessario rivolgersi a modelli di vita differenti. 

Mi ha colpito di recente sentire un alto funzionario Fao  parlare di spiritualità, bellezza a proposito dei sistemi alimentari indigeni, quasi un tentativo di andare in una direzione diversa, verso un modello culturalmente più femminile, dove  il cibo è fortemente legato al senso dell’esistenza, alla bellezza collettiva.”

Come si pone  Slow Food rispetto al valore del cibo e all’aumento dei prezzi per il suo acquisto mentre aumentano le persone in difficoltà economica anche grave?

“Dobbiamo avere chiaro che ormai da diversi anni a livello globale il cibo ed in particolare alcuni alimenti come riso e grano sono considerati una merce di scambio delle vere e proprie commodities scambiate sui mercati azionari. Questo ovviamente ha prodotto un profondo cambiato perché riso, mais e grano a livello globale rappresentano il 75% delle calorie che nel mondo alimentano gli esseri umani.

Dunque il cibo è trattato in termini di prezzo in quanto merce di scambio. 

Noi di Slow Food preferiamo parlare del valore del cibo e dei molti fattori, scarsamente considerati dalla finanza globale, che vi concorrono: la bellezza, la spiritualità, il paesaggio, il futuro dell’esistenza.

Un valore che tiene anche conto dell’importanza di certe produzioni in certi luoghi perché non vengano abbandonati e del dissesto idrogeologico a cui vanno incontro le aree marginali.

C’è poi una importantissima questione culturale: negli anni Sessanta più della metà del reddito mensile di una famiglia veniva utilizzato per acquistare cibo. Negli ultimi decenni la proporzione si è invertita per cui la quota di stipendio utilizzata per comprare il cibo è divenuta residuale a vantaggio di altri beni di consumo ( telefonini, vestiario firmato..). Ci siamo abituati all’idea che il cibo debba costare poco.

Ciò detto resta il fatto che in questo momento ci sono circostanze molto, molto severe per gran parte della popolazione italiana per cui diventa sempre più attuale e necessario che il cibo sia buono (gradevole), pulito (rispetto all’impatto sull’ambiente), giusto (non causi sfruttamento lungo l’intera filiera) ma anche accessibile a tutti. A tal proposito lavoriamo molto sulle politiche alimentari delle città con particolare attenzione alla ristorazione collettiva che muove tonnellate e tonnellate di cibo (nella scuola, negli ospedali, nelle RSA) e può raggiungere, ad esempio, nella scuola pubblica tutti i bambini per molti dei quali garantisce il pasto sicuro ed equilibrato del giorno. Stiamo lavorando perché la refezione scolastica non sia un servizio facoltativo a richiesta ma un diritto per tutti. Ugualmente continuiamo a lavorare per affermare una cultura del cibo (food literacy) che consenta di fare le scelte migliori per noi per il pianeta in cui viviamo. In questo senso va anche il nostro impegno per realizzare la transizione proteica, ovvero il processo per cui nei prossimi anni si dovrà avere una approvvigionamento proteico primariamente da fonte vegetale piuttosto che animale, dove i legumi rappresentano un’alternativa d’elezione specie se abbinata ai cereali, fonti alimentari alla portata di tutti.

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