DOSSIER ASSEMBLEE dei CITTADINI Dalla rappresentanza alla ‘lottocrazia’ Non c’è decarbonizzazione senza democratizzazione

DOSSIER ASSEMBLEE dei CITTADINI Dalla rappresentanza alla ‘lottocrazia’

Non c’è decarbonizzazione senza democratizzazione

Mentre le nostre conoscenze confermano il cambiamento climatico causato dall’uomo, il ticchettio dell’orologio del clima avanza inesorabile e incalzante; gli anni passano, le temperature medie del pianeta aumentano, e continuiamo a ‘ballare sul Titanic’ navigando sulla rotta di collisione…

Il punto cruciale è quindi se le società umane siano in grado di prendere le decisioni adeguate per affrontare la sfida, nonché di poi attuarle realmente (aspetto questo sempre in secondo piano nel discorso pubblico, ma imprescindibile se si mira ad avere un impatto effettivo). 

L’attuale obiettivo è (sarebbe…) di portare a zero le emissioni climalteranti nette (‘net-zero’) entro la metà del secolo. È un’impresa immensa: si tratta di modificare praticamente ogni aspetto dei modi di produrre e vivere che abbiamo sviluppato negli ultimi secoli basandoci sulla disponibilità di combustibili fossili a costi contenuti: niente di meno. Affrontare -efficacemente, non simbolicamente- il cambiamento climatico comporta quindi cambiamenti di portata molto ampi, per di più in tempi molto rapidi. È precisamente questo l’aspetto focale, troppo spesso ignorato, come se il clima aspettasse i tempi delle scelte degli umani.  E allora: chi decide, e come?

Inefficienza e limiti dei regimi liberal-democratici

I regimi politici liberal-democratici, nonostante impegni e accordi che si susseguono nell’arena internazionale (Kyoto, Parigi, i COP annuali), mostrano evidenti limiti nell’affrontare in modo adeguato la questione. La ragione non è da ricondurre alla “disposizione” del personale politico (come vuole spesso la vulgata); piuttosto è strutturale, connaturata al funzionamento di questi regimi: i rappresentanti razionalmente cercano consensi, e portare il messaggio del cambiamento è un cattivo biglietto da visita da presentare ai propri elettori. 

A questo si aggiunge l’influenza (niente affatto democratica, per quanto considerata “fisiologica”) degli interessi organizzati, spesso dotati di risorse ingenti ma anche di forte legittimità agli occhi dell’opinione pubblica. 

Studiosi quali C. Crouch e A. Mastropaolo hanno evidenziato come siamo avviati da tempo verso un assetto “post-democratico”, in cui le decisioni significative sono prese in sedi e da attori che nulla hanno di democratico: sistema finanziario, grandi multinazionali i cui budget superano quelli di molti Stati nazionali, gruppi d’interesse, tecnocrazie pubbliche e private, criminalità organizzata, le grandi imprese informatiche. Per dirla con N. Bobbio, “Un potere invisibile … accanto o sotto il potere visibile … di oligarchie e élites al potere … corrompe la democrazia”.

Il fatto è che all’emergenza climatica corre in parallelo anche un’emergenza democratica: la crescente disillusione e perdita di fiducia dei cittadini nelle capacità e/o nelle intenzioni delle élites elettive. Nel suo editoriale recentemente apparso su questa rivista Francesca Cigala evidenzia come il modello politico di democrazia basato unicamente sulla rappresentanza non sia in grado di affrontare la sfida del cambiamento climatico nei tempi necessari. 

Crescente sfiducia nelle élites e negli esperti. Il consenso va rifondato

Buona parte dell’opinione pubblica è convinta della necessità di contrastare il cambiamento climatico, gli effetti (siccità, temperature elevate, tornado, innalzamento del livello dei mari…) rendono palpabile che il cambiamento del clima del pianeta è già in atto, ma in un’epoca di decrescente fiducia nelle élites, i cittadini non sono disposti ad accettare politiche che comportino cambiamenti e sacrifici significativi imposti dall’alto

E infatti politiche e misure mirate a contenere il cambiamento tipicamente provocano forti resistenze e conflitti anche accesi. Una dimostrazione è offerta dalle cronache recenti: il presidente francese Macron all’inizio del suo primo mandato nel 2018 annunciò di voler tassare maggiormente i carburanti per scoraggiare l’uso dei veicoli. Ottima intenzione; ma la decisione aveva chiari effetti distributivi (costi a carico dei pendolari delle banlieus, non degli abitanti urbani che possono usare i servizi di trasporto pubblico). Risultato: la proposta di Macron ha dato vita al movimento dei gilets jaunes e Monsieur le Président ha dovuto fare marcia indietro.

A fronte delle difficoltà dei regimi democratici, la tentazione può essere di ricorrere allora a una “scorciatoia” quale l’epistocrazia, ovvero al governo degli esperti, come osserva Helene Landemore, una studiosa francese che insegna a Yale e si occupa da tempo di democrazia deliberativa. L’argomento a favore degli esperti (che per la verità risale già a Platone…)  è che sono portatori di conoscenze rilevanti nel merito non solo del problema, ma anche delle soluzioni, e quindi possono prendere decisioni “razionali” in modo efficiente e tempestivo senza “pastoie”. Inoltre non sarebbero “costretti” da considerazioni elettorali o di consenso più in generale. 

Non è una scelta tecnica ma politica

D’altra parte, la “saggezza” non conferisce loro né titolo né legittimità ad effettuare scelte, destinate a ricadere sul resto della società. A ben guardare, non c’è una soluzione la cui individuazione va affidata agli esperti; si tratta invece di scegliere fra più opzioni, anche difficili e dolorose; è una sfida multi-dimensionale e sistemica chiamata a misurarsi con la complessità e la sofisticazione raggiunta dalle società contemporanee. 

Affrontare il cambiamento climatico implica inevitabilmente cambiamenti nelle sfere sociali ed economiche che sollevano questioni valoriali e scelte di priorità. Né si tratta di un esercizio tecnico-neutrale poiché interessa la distribuzione di costi e benefici tra individui, gruppi sociali, regioni e nazioni; in altre parole, c’è chi guadagna e chi perde in base alle scelte fatte. 

Giustizia ed equità distributiva sono temi nient’affatto tecnici, ma squisitamente politici (e densi di implicazioni etiche). Inoltre, non ci sono garanzie che gli esperti siano immuni da influenze indebite (da parte di gruppi d’interesse). Né si capisce perché i cittadini dovrebbero accettare passivamente le scelte degli esperti, calate anch’esse dall’esterno. Senza menzionare che gli esperti spesso sono in disaccordo tra loro (e per fortuna: il senso critico è ciò che fa progredire la scienza). Gli esperti quindi hanno senza ombra di dubbio un’importanza insostituibile sul fronte cognitivo, ma non sono i soggetti che possono prendere decisioni in nome della collettività. 

Se queste considerazioni sono condivisibili, la domanda da porsi, se vogliamo avere qualche possibilità di arrestare veramente il riscaldamento del pianeta, è come generare un consenso reale, condiviso e ampio a favore dei cambiamenti economici, tecnologici e sociali necessari affinché questi possano essere sia decisi, sia messi in atto. 

La “partecipazione” è diventata pratica vuota. Bisogna trasferire quote di potere ai cittadini

È quindi al demos, al popolo sovrano (art. 1 Costituzione) che dovremmo ritornare a guardare. Il regime democratico nato alla fine del ‘700 necessita di profonde innovazioni se vuole sopravvivere ed essere all’altezza delle questioni collettive che abbiamo di fronte, come osserva il politologo M. Gauchet. E H.Landemore ci ricorda giustamente che non possiamo vincere la sfida della decarbonizzazione senza un processo di democratizzazione

Tutto questo oggi va sotto il termine di “partecipazione”; nel corso degli ultimi decenni il termine ha goduto di “buona stampa”. Ma si tratta realmente di partecipazione, ovvero i cittadini sono chiamati non a prendere parte genericamente, ma a far parte della decisione, a contare davvero? In realtà no; la partecipazione oggi praticata è tipicamente superficiale e spesso riguarda questioni di scarsa rilevanza. In realtà le élites politiche, anche quando parlano di partecipazione, non sembrano disposte a rinunciare neppure a una quota del proprio potere né a ripensare il proprio ruolo.

Se si considera la “scala della partecipazione” proposta già alla fine degli anni ’60 da S. Arnstein, molti processi definiti come “partecipativi” in realtà si limitano a informare i cittadini di decisioni già prese o tutt’al più a consultarli, senza però alcun impegno a tener conto dei pareri espressi. Una reale partecipazione implica empowerment, un effettivo trasferimento di significative quote di potere dai governanti ai cittadini.

Cittadini egoisti e ignoranti …

Ma è realistico coinvolgere i cittadini nelle difficili scelte che le società contemporanee sono chiamate a prendere? L’opinione egemone, per quanto sottaciuta per pudore o ipocrisia, è che i cittadini siano troppo ignoranti e/o focalizzati sul proprio tornaconto egoistico, che non abbiano né tempo né voglia per la politica, assorbiti delle loro faccende private … e poi le questioni attuali sono troppo complicate per i cittadini “ordinari”, a decidere debbono essere i politici e gli esperti. Per onestà dobbiamo riconoscere che questo è ciò che pensano le élites politiche, ma, paradossalmente, spesso anche gli stessi cittadini di sé stessi.

Il punto però è un altro, ovvero se un insieme di individui, posto nelle condizioni di disporre delle necessarie conoscenze e di riflettere in modo approfondito su una specifica questione, possa prendere “buone” decisioni attingendo a quella che H. Landemore definisce la “intelligenza collettiva”.

In effetti sono disponibili ormai centinaia di esperienze sul campo -promosse da enti pubblici, fondazioni, ricercatori, cittadini, associazioni- a partire dagli anni ’70 che ne hanno dimostrato sia la fattibilità che l’utilità, evidenziando come i cittadini siano in grado di misurarsi con questioni sofisticate ed importanti, a condizione che  vengano motivati e posti nelle condizioni appropriate. 

…. nuove ed efficaci strutture sociali di dialogo e deliberazione

Sono tutte queste esperienze di partecipazione deliberativa sul campo  (anche ibridate con istituti di democrazia rappresentativa e/o diretta) che costituiscono un processo sociale democratico che mette al centro il dialogo e la deliberazione, in condizioni procedurali eque fra partecipanti liberi e uguali, ed è rivolto a produrre un’attenta riflessione con l’obiettivo di pervenire a una decisione su una questione collettiva significativa.

Questa modalità di coinvolgimento dei cittadini presenta specifiche connotazioni che la distinguono nettamente e la rendano più “profonda” rispetto alle forme “tradizionali”. Vediamoli brevemente.

Il dialogo mira a favorire la deliberazione; deliberare, contrariamente all’accezione corrente nel linguaggio istituzionale-amministrativo, significa sì assumere una decisione nel merito di una questione, ma solo dopo averla discussa ed esaminata a fondo, soppesando (deliberare viene dal latino libra, bilancia) attentamente i pro e i contra dei diversi possibili corsi d’azione, compresi vincoli, opportunità, conseguenze, valori e interessi in gioco. La deliberazione dunque è un processo di analisi delle questioni, di ponderazione delle opzioni e, solo dopo, di assunzione di decisioni nel merito.

Un tratto distintivo della partecipazione deliberativa è la particolare enfasi che viene posta sulla dimensione cognitiva: è alla ricerca di opinioni ben informate. L’intento è di consentire ai partecipanti, sia come singoli che come “insieme”, di pervenire a preferenze, opinioni e decisioni basate su informazioni e conoscenza, imprescindibili pre-condizioni per un effettivo dialogo. 

I cittadini esposti ad adeguata informazione e riflessione sono nelle condizioni di esprimere un “giudizio pubblico” ben diverso dalla “opinione pubblica grezza” che viene rilevata dai sondaggi (sotto questo profilo la partecipazione deliberativa rappresenta l’antitesi della disinformazione e un antidoto contro le fake news di internet).

I processi deliberativi si differenziano nettamente dalla partecipazione tradizionalmente intesa anche per quanto concerne il “chi partecipa”, una questione troppo spesso ignorata o data per scontata; eppure si tratta di un aspetto delicato e al contempo di importanza capitale: chi partecipa influenza il processo, il suo esito nonché la sua legittimità. 

Originalità delle Assemblee: sorteggio campionario dei partecipanti. Rappresentatività al posto di rappresentanza  

La partecipazione deliberativa declina il principio di inclusione in modo originale assicurando che tutti i punti di vista di qualche rilevanza rispetto alla questione trattata (in particolare quelli normalmente marginali o escluse) abbiano la possibilità di far sentire la propria “voce” e di essere ascoltati.

Mentre i processi tradizionali reclutano i partecipanti tramite la selezione mirata/invito (rivolta soprattutto a soggetti organizzati e stakeholders) o l’approccio della “porta aperta” (gli incontri vengono pubblicizzati e sono aperti a chiunque lo desideri), la partecipazione deliberativa invece utilizza un approccio innovativo radicalmente diverso: la formazione di “minipubblici” attraverso il campionamento stratificato dei partecipanti in modo da assicurare che siano uno “specchio” dell’intera comunità interessata in quanto rappresentativi sotto il profilo socio-demografico (risolvendo così l’obiezione delle dimensioni della popolazione). 

Dunque, la rappresentatività si sostituisce alla rappresentanza. I minipubblici sono abbastanza piccoli da consentire una vera deliberazione e abbastanza rappresentativi da essere genuinamente democratici. 

Inoltre, il campionamento favorisce la presenza di una varietà di opinioni e preferenze. La diversità di opinioni, spesso vista oggi come problematica, non solo è democrazia, è anche una risorsa, utile e necessaria nella ricerca di “buone” decisioni in una società complessa. Infine, il campionamento rappresenta uno dei meccanismi più imparziali ed egualitari che le società umane siano state capaci di escogitare: il sorteggio. Come diceva già Aristotele 25 secoli fa, l’elezione è aristocratica, il sorteggio delle cariche democratiche.

La partecipazione di cui parliamo qui è di natura politica, e il fenomeno al centro della politica è il potere. La partecipazione deliberativa mira a rafforzare la voce dei cittadini e ad “espandere” la democrazia, come accennato, attraverso l’empowerment dei cittadini; la partecipazione è reale e rilevante se, e solo se, influenza in misura significativa le decisioni in gioco. 

La partecipazione è reale solamente se c’è empowerment dei cittadini

Se molti cittadini oggi sono poco interessati alla politica, a farsi opinioni “solide” sulle questioni pubbliche e a partecipare alla vita pubblica, ciò è forse dovuto al fatto che l’esperienza ha insegnato loro che essi contano ben poco sulle e che le loro indicazioni sono destinate ad avere scarso impatto; il loro atteggiamento peraltro cambia radicalmente quando hanno la possibilità di esercitare un’effettiva influenza su questioni rilevanti. Un reale empowerment è dunque la chiave per motivare i cittadini a partecipare alla vita e alle scelte pubbliche

Le Assemblee Cittadine incorporano queste specifiche connotazioni; non sono quindi forme di partecipazione generica, né le assemblee di sessantottina memoria.  Costituiscono invece uno specifico formato di partecipazione deliberativa che, anche grazie a movimenti sociali quali Extinction Rebellion, conosce una crescente diffusione. 

Anche in Italia: l’istituto è già previsto da Statuti e regolamenti dei Comuni di Susa, Milano e Bologna. Quest’ultimo Comune appare intenzionato ad avviare la prima Assemblea sul clima già il prossimo autunno. Nel frattempo la prima Assemblea italiana si è svolta a Burzi, un piccolo Comune sardo.

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