I siti analoghi di altri pianeti sono nel Sud del Mondo, ma troppo spesso si studiano con “ricerche elicottero” neocoloniali “Sono ambienti estremi da rispettare coinvolgendo scienziati e popolazioni locali” Cavalazzi e Franchi su Nature Astronomy

I siti analoghi di altri pianeti sono nel Sud del Mondo, ma troppo spesso si studiano con “ricerche elicottero” neocoloniali

“Sono ambienti estremi da rispettare coinvolgendo scienziati e popolazioni locali” Cavalazzi e Franchi su Nature Astronomy

Coinvolgere gli scienziati locali, creare reti tra loro, rispettare il territorio e collaborare con le popolazioni indigene che lo abitano: queste le buone pratiche per l’accesso e il campionamento di ambienti estremi – come deserti, ghiacciai e fondali marini – analoghi a quelli della Terra primordiale o di altri pianeti. 

Questi siti analoghi planetari, studiati dagli astrobiologi per comprendere meglio l’origine, l’evoluzione e la presenza della vita nell’Universo, si trovano in gran parte nel Sud del Mondo, come per esempio le saline di Makgadikgadi in Botswana o il deserto della Dancalia in Etiopia. Un gruppo di ricercatori in scienze planetarie ha recentemente passato in rassegna le implicazioni etiche affatto banali di questi studi in un articolo pubblicato su Nature Astronomy.  

Un coinvolgimento autentico dei ricercatori locali

Un numero sempre maggiore di ricercatori internazionali – di solito provenienti dal Nord del Mondo – visita questi ambienti estremi analoghi, tuttavia i ricercatori locali del Sud globale rimangono sottorappresentati negli studi di scienze planetarie. Questa pratica, anche nota come “ricerca elicottero”, è un’eredità del colonialismo e vede i ricercatori del Nord volare verso il Sud per raccogliere i dati – spesso prelevando anche campioni di suolo – e poi ritornare nel proprio Paese per analizzare e pubblicare i risultati con quasi nessun coinvolgimento della comunità scientifica locale.

Ricercatori nel deserto della Dancalia (©B. Cavalazzi, Europlanet Society)

“Molte volte ai ricercatori locali si offre solo la possibilità di aggiungere il proprio nome nelle pubblicazioni ma non li si coinvolge mai veramente nella scienza, che di solito viene completata nei centri di ricerca del Nord del Mondo” – spiega ad Agenda17 Barbara Cavalazzi, professoressa associata presso il Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, tra gli autori del nuovo articolo.

Gli scienziati locali non devono essere considerati delle semplici guide sul campo ma trattati alla pari coinvolgendoli in tutti gli ambiti della ricerca, incluso l’analisi dei campioni raccolti. “Nei nostri progetti, i field-leader sono locali: in Cile, in Argentina, in Botswana. È un passaggio importante, da un semplice sfruttamento della risorsa naturale in sé al coordinamento locale” – spiega il co-autore Fulvio Franchi, professore associato presso il Dipartimento di Scienze della Terra e dell’ambiente, Botswana International University of Science & Technology.

In Botswana, ad esempio, Lesedi Lebogang, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Biologiche e Biotecnologia, Botswana International University of Science & Technology, oggi conduce un lavoro sul campo nelle saline di Makgadikgadi in collaborazione con un team dell’Instituto Nacional de Técnica Aeroespacial (INTA), in Spagna. “La dottoressa Lebogang non aveva lavorato su progetti di astrobiologia in passato – chiarisce Franchi -. Adesso invece è co-leader del sito di ricerca: è tornata nelle saline con il gruppo spagnolo e conduce il lavoro con le stesse responsabilità dei co-autori del progetto.”

Creare delle reti locali

Nel 2013 Cavalazzi ha cominciato a fare ricerca nel deserto della Dancalia, in Etiopia, dove sorge il Dallol, una struttura vulcanica che è un ottimo analogo terrestre di Marte. “Lavorando in una regione così remota – racconta Cavalazzi – mi sono presto resa conto della grande curiosità dei bambini della zona, incuriositi da ogni novità. Noi andiamo in questi posti a sviluppare la nostra ricerca, ma andiamo anche a invadere questi luoghi. È bello restituire qualcosa di pratico alla comunità locale che possa compensare il lavoro scientifico che io stavo portando avanti.” 

In un primo momento Cavalazzi ha visitato le scuole dei villaggi del Nord dell’Etiopia parlando con gli insegnanti e i presidi delle scuole, distribuendo materiale didattico, e chiacchierando con le donne dei villaggi, sensibilizzando la popolazione sul tema del diritto all’educazione. “Sono Paesi in cui c’è molto abbandono scolastico – continua Cavalazzi – e le bambine sono le prime a non andare a scuola. Ogni volta che si fa un’azione in un paese diverso dal nostro, ogni azione deve essere armonizzata, è necessario rapportarsi alla cultura locale, anche se uno non la condivide, le buone pratiche vanno fatte nel rispetto della cultura locale.”

Barbara Cavalazzi e alcuni bambini della Afar Desert Class (©M. Tamrat/B. Cavalazzi)

Con dei piccoli finanziamenti e in collaborazione con esperti locali, Cavalazzi ha organizzato delle scuole di formazione per docenti, riuscendo a portare gli insegnanti delle zone rurali all’Università di Macallè, nella regione del Tigray, in Etiopia. Da questa prima idea è nato il contatto con la Europlanet Society che ha permesso un salto ulteriore: accanto ai progetti didattici, la ricercatrice ha guidato anche l’organizzazione di tre congressi internazionali in Africa – in Botswana, Etiopia e Marocco – e il quarto che ha avuto luogo a ottobre 2023 in Argentina

Queste conferenze hanno lo scopo di creare e favorire la formazione di un rete locale di esperti mettendo in contatto scienziati più esperti con giovani ricercatori. “Spesso in Africa o in Sud America ci sono scienziati eccellenti, ma tendono a collaborare solo con l’Europa o gli Stati Uniti. Metterli in contatto con altri scienziati locali, anche giovani in formazione, è una buona pratica – aggiunge Cavalazzi -. Per questo i nostri incontri non sono organizzati da europei che vanno lì e una volta finita la loro lezione ritornano a casa: quasi tutti i docenti sono locali. È così che si favorisce la costruzione di un network locale. Io organizzo, coordino ma sono loro stessi che si mettono in gioco.”

Il congresso in Argentina era in modalità ibrida, sia in presenza che in remoto. Chi si è recato in presenza è stato invitato a fermarsi più tempo possibile ed erano previsti eventi e tavole rotonde per favorire gli scambi e il networking – un aspetto richiesto espressamente dalla comunità scientifica locale. Con più di 100 iscritti, Cavalazzi spera possa dar luogo alla prima rete sudamericana di scienze planetarie.

Conoscenza indigena e tutela del territorio

Una convinzione comune tra gli astrobiologi è che gli ambienti estremi siano “terre vuote”. Benché questi luoghi estremi siano poco o per nulla abitabili, spesso sono stati dimora di comunità indigene per secoli, comunità per le quali rivestono una forte importanza dal punto di vista storico, culturale e spirituale. “Per questo sicuramente è importante lavorare con i locali ed essere in contatto nelle zone remote con i capi villaggio e capi tribù per sapere dove si può andare e dove no – afferma Cavalazzi -. Del resto queste persone sono le migliori guide locali, conoscono la pericolosità dei luoghi.”

La prima Afar Desert Class nel deserto dell’Etiopia (©B. Cavalazzi)

La conservazione e la tutela dell’ambiente devono passare prima a livello dell’amministrazione e successivamente a livello locale. Questo è particolarmente importante per quanto riguarda la raccolta e analisi dei campioni di suolo. Ad esempio in Botswana, dove la questione è già regolamentata dalle leggi locali, i campioni prelevati nelle saline di Makgadikgadi sono trattenuti nell’università per due settimane prima che il governo dia l’autorizzazione per la spedizione in un altro Paese. 

In alcuni siti è estremamente importante un coordinamento locale che segua passo passo tutti i gruppi scientifici. È il caso dell’altopiano della Puna in Argentina, dove i campioni da prelevare sono pochi ed estremamente vulnerabili a cambiamenti naturali, inclusi i cambiamenti climatici, oppure ad azioni antropiche come le estrazioni minerarie. 

“Ogni gruppo di ricerca in modo molto egoistico vorrebbe per sé un determinato tipo di campione – nota Franchi -. Dal campionamento selvaggio dobbiamo passare a un coordinamento locale. Altrimenti nessun singolo scienziato si prenderebbe mai la briga di preoccuparsi di quello che hanno fatto gli altri.”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *