Si è chiuso recentemente a Torino il festival “Un grado e mezzo”, nato con l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico, in particolare le nuove generazioni, sui temi della crisi climatica e della sostenibilità ambientale.
Il titolo richiama infatti l’obiettivo dell’Accordo di Parigi del 2015 di limitare l’aumento della temperatura globale entro 1.5°C rispetto ai livelli preindustriali.
Ideato e realizzato da Associazione CentroScienza Onlus, nata nel 1996 dalla collaborazione tra docenti universitari, giornalisti e professionisti della museologia scientifica, è giunto alla sua terza edizione, alla quale si deve aggiungere un’edizione sperimentale “zero”.

Il festival nel 2025 ha svolto una parte dei suoi eventi in montagna, con appuntamenti, oltre che nel capoluogo piemontese, a Gressoney e Bardonecchia.
Agenda17 ne ha parlato con Elisa Palazzi, climatologa presso l’Università di Torino e una delle curatrici scientifiche del Festival.
Avete scelto di svolgere parte del festival in montagna e di fare non solo conferenze ma anche laboratori. Questo ha dato luogo a una partecipazione meno “top down”, più consapevole?
“I laboratori e le attività esperienziali sono parte integrante del Festival fin dalla sua edizione zero: rappresentano l’approccio distintivo di CentroScienza, l’associazione cui il Festival fa capo, da sempre impegnata nella ricerca di linguaggi e modalità che coinvolgano attivamente il pubblico.
Le persone non si limitano ad ascoltare, ma sperimentano e si confrontano direttamente con relatrici e relatori. Questo approccio rafforza la consapevolezza dei temi trattati e crea un legame più profondo tra le persone, i contenuti e i luoghi.
Cresce l’interesse da parte delle famiglie, che trovano nel festival un’occasione di apprendimento condiviso.
Allo stesso tempo, si avvicinano sempre di più adulti che sentono il bisogno di acquisire strumenti per comprendere fenomeni complessi e per certi versi incerti: partecipano con domande, curiosità e il desiderio di orientarsi meglio, a conferma che il festival risponde a un bisogno reale e trasversale di conoscenza accessibile e di qualità.
La scelta di portare l’ultima edizione del Festival in montagna è in parte legata alla specificità dell’anno 2025, proclamato dalle Nazioni unite “Anno Internazionale per la conservazione dei Ghiacciai”, con l’obiettivo di accendere il riflettore sulle zone del Pianeta più sensibili al riscaldamento globale, come le montagne con i loro ghiacciai che vanno scomparendo.
Affrontare i temi del cambiamento climatico direttamente nei luoghi dove i suoi effetti si manifestano più intensamente è importante. Inoltre, abbiamo sentito il bisogno di raggiungere comunità più lontane dal contesto cittadino, già molto ricco di eventi nel corso dell’anno.”
Ultimamente si parla di ecoansia: sta aumentando? È una nemica o un’alleata per le politiche contro il cambiamento climatico?
Dal mio limitato osservatorio di docente e divulgatrice, mi pare che l’ecoansia si stia facendo sempre più largo soprattutto tra i giovani e le giovani.
Talvolta può essere una leva che spinge all’azione e alla mobilitazione, ma temo che più spesso rappresenti motivo di malessere, rassegnazione e impotenza rispetto al futuro che ci aspetta.
Diversi studi oggi riconoscono i rischi per la salute mentale associati al cambiamento climatico. Non possiedo competenze specifiche su questo ma immagino che riconoscere l’ecoansia come fatto reale e crescente e supportarla con spazi di dialogo, condivisione e partecipazione possa aiutare a farla diventare leva di trasformazione positiva.

Lei parla spesso di sensibilità al tema delle nuove generazioni. Riscontra una differenza significativa rispetto alle generazioni precedenti, che poi hanno contribuito all’attuale situazione?
“Le giovani generazioni, sempre dal mio osservatorio, sono enormemente più sensibili e ingaggiate rispetto a quelle precedenti. Per loro è una questione vitale.
Forse una differenza significativa rispetto alle generazioni precedenti è che per i giovani la crisi climatica è una questione a tutto tondo, identitaria, da cui dipende anche (molto) il loro futuro. Per le generazioni precedenti resta più una questione scientifica con meno connessioni con le loro vite.”
Spesso le conseguenze del cambiamento climatico ricadono su popolazioni che hanno meno contribuito al peggioramento delle condizioni ambientali. Questo aspetto è percepito e quanto un sentimento di giustizia può contribuire ad alimentare scelte consapevoli?
“Purtroppo, credo che il tema dell’ingiustizia climatica come leva per agire nel contrasto alla crisi climatica sia percepito da poche persone, incluse quelle che potrebbero davvero fare la differenza.
Eppure, la questione è significativa: le popolazioni più vulnerabili subiscono impatti maggiori ma, storicamente, hanno contribuito pochissimo alle emissioni globali di gas serra.
Prendere a cuore questa questione significa comprendere non solo il principio di ‘responsabilità comuni ma differenziate’ ma anche il fatto che la crisi climatica non è solo ambientale, ma anche sociale, culturale, etica.”
Nel rapporto annuale su media e clima realizzato dall’Osservatorio di Pavia per Greenpeace si parla di un calo delle notizie sul clima nel 2024 sui media mainstream di oltre il 40% rispetto all’anno precedente. I festival possono in qualche modo sopperire alla mancanza di informazione?
Il rapporto evidenzia che i media non riescono a trattare in modo continuativo e trasversale un tema complesso come quello della crisi climatica, riuscendo a mantenere alta l’attenzione sempre. L’attenzione è alta solo quando si verificano eventi estremi o catastrofici.
E ciò che molto spesso manca è una chiara menzione delle responsabilità, come quelle delle aziende maggiormente inquinanti o climalteranti.
Si sente la mancanza di un’informazione ampia, trasversale sul cambiamento climatico che racconti non solo la situazione in atto ma anche il processo della conoscenza, le azioni intraprese fino ad ora, i vantaggi della transizione energetica.
I festival come “Un grado e mezzo” sono un’occasione importante per arricchire lo scenario dell’informazione e renderla più partecipata, ma non bastano ovviamente. Ognuno dovrebbe fare la sua parte!”
Che tipo di comunicazione può, oltre che informare, modificare le nostre azioni?
“Quella che, senza rinunciare al rigore scientifico, sa toccare le corde dell’emotività. Per questo si stanno creando alleanze preziose tra il mondo della scienza e quello dell’arte, del teatro, della musica, della poesia, del racconto.
Le condizioni climatiche possono offrire uno stimolo alla creatività, al bisogno di esprimere come vediamo il mondo.
L’arte, oggi, sta facendo della crisi climatica un tema centrale e se la esprime (anche) attraverso fotografie, sculture, performance di teatro, musica, oltre che numeri, la si può rendere un’esperienza per tutti e tutte, condivisa, immediata.”
Per i giovani la lotta contro il cambiamento climatico è diventata fonte di aggregazione, anche varcando i confini nazionali. Siamo di fronte a un fenomeno nuovo rispetto alle generazioni precedenti?
“Anche in passato ci sono state manifestazioni di grande portata e impatto. E probabilmente le istanze non sono così diverse da quelle di chi scende in piazza oggi per il clima.
Il clima e la lotta alla crisi climatica sono una lente per affrontare temi chiave come il lavoro, la pace, l’equità di genere, la lotta alla povertà. Affrontare la crisi climatica è un modo per affrontare anche le altre grandi questioni del nostro tempo. Credo che questo le giovani generazioni lo abbiano capito benissimo.”
