Il 40% dei ricercatori post-doc lascia l’accademia: tra le cause che spingono i ricercatori a preferire altre carriere o addirittura altri Paesi, i dati di uno studio pubblicato a gennaio 2025 su Proceedings of the National Academy of Sciences rivelano che quasi la metà di loro (40%) abbandona l’accademia a causa di un bottleneck, o collo di bottiglia, un restringimento del flusso, che dura da diversi anni e che sempre più si stringe e seleziona i pochissimi che arriveranno ai posti di ruolo disponibili in base a criteri esclusivamente quantitativi.
E tra coloro che rimangono e ottengono un incarico di docenza c’è per lo più chi nel periodo del post-doc aveva scritto un articolo molto citato.
Questo a conferma della sempre più forte pressione a pubblicare e dell’importanza degli anni, a partire da quelli del dottorato e poi del post-doc, che diventano critici quando si valuta la probabilità che uno scienziato entri con successo nel mondo accademico e si assicuri un posto da docente.
Ovviamente non è l’unico fattore discriminante e da prendere in considerazione.
In Italia solo chi si trova in condizioni economiche privilegiate continua la carriera accademica
“Questo fenomeno di bottleneck esiste da anni nel nostro Paese ma è stato esacerbato negli ultimi anni dai numerosi posti finanziati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che non corrispondono ad altrettante posizioni di docenza disponibili” dichiara ad Agenda 17 Plus Raffaele Vitolo, coordinatore AT Ricerca e membro della Segreteria nazionale dell’Associazione dei dottorandi e dei dottori di ricerca in Italia (Adi) .

Dal 2022 i posti Pnrr hanno falsato i dati sulla situazione reale, ma se ci riferiamo a prima del 2022 i dati parlano chiaro. L’indagine Adi del 2017 riporta che solo uno su quattro tra chi ha un dottorato continua con un post-doc, di questi solo uno su dieci arriva ad avere un posto stabile in università, praticamente chi può permettersi più di dieci anni di precariato considerando che la media dell’età dei precari supera i quarant’anni.
Per chi vuole realmente fare ricerca e rimanere in ambito accademico, il dottorato rappresenta una tappa obbligata e fondamentale del percorso.
“Bisogna considerare però che in Italia, come in altri Paesi, può permettersi un dottorato solo chi si trova in condizioni socio-economiche privilegiate e che può contare su una famiglia medio-borghese alle spalle” afferma Sofia Gualandi, dottoranda in Diritto dell’Unione europea e ordinamenti nazionali dell’Università di Ferrara e coordinatrice Adi Ferrara
Il dottorato diventa quindi un percorso selettivo e discriminante, che vede da un lato il privilegio di rimanere in ambito accademico, dall’altro la frustrazione nel non riuscire ad emanciparsi completamente dal punto di vista economico, di vivere ancora in una condizione ibrida di precariato.

La borsa di dottorato italiana è più bassa di circa il 30% rispetto agli altri Paesi europei, è la stessa per tutto il territorio nazionale E non tiene conto del costo della vita, che in Italia può oscillare tra i 2mila euro al mese di Milano e i 1200 di Campobasso. Una condizione nella quale fare anche i conti con la frustrazione del tempo che passa, con contratti parasubordinati senza ferie o congedi, con la possibilità di una mobilità permanente.
A rischio la qualità dei prodotti scientifici, la ricerca libera e l’uguaglianza di genere
“In Italia, come negli altri Paesi, si è assistito a un certo punto a un fenomeno in cui riviste predatorie hanno iniziato a pubblicare di tutto, senza una revisione scientifica rigorosa, riviste gestite dagli stessi gruppi che le controllano e che si fanno anche pagare per farlo” conclude Vitolo.
Questi ultimi anni ci hanno lasciato un calderone di articoli di media se non scarsa qualità, poco rifiniti o scientificamente rilevanti che mettono a rischio la credibilità dei ricercatori.
Ormai si pubblicano sempre più ricerche a “basso rischio” a discapito di approcci meno convenzionali e più innovativi, o argomenti di tendenza, che possano più facilmente interessare gli editori e passare le revisioni, come è successo durante la pandemia Covid o adesso con l’Intelligenza artificiale (IA).
“A volte è la conseguenza di un ‘effetto pecora’ che spinge i ricercatori a scrivere di un argomento se lo fanno anche gli altri – aggiunge Gualandi – a volte questa tendenza è obbligatoriamente orientata dai finanziamenti delle ricerche che spingono su alcuni argomenti piuttosto che altri per motivi politici o economici, senza i finanziamenti pubblici non esiste neanche una ricerca libera.”
Già nel 2016 uno studio su Nature aveva mostrato i dati sconcertanti secondo cui, a proposito della riproducibilità degli esperimenti, specchio della qualità di un prodotto scientifico, il 70% dei ricercatori aveva fallito a riprodurre gli esperimenti di altri scienziati e la metà addirittura i propri.
Si sono diffuse pratiche di salami slicing o “affettatura del salame”: la frammentazione artificiale di una ricerca in più articoli, o di reti di co-autorialità, o la pratica di mettersi d’accordo tra gruppi di ricerca affini per citarsi e avere punteggi sempre più competitivi.
L’esasperazione a lungo raggio di questo processo contribuirà ad aumentare anche due tipi di gap. Innanzitutto, il gender gap. “La ricerca pura è riservata per lo più agli uomini – sentenzia Gualandi – più volte alle donne che fanno ricerca vengono affidati compiti secondari, mansioni femminilizzate, come l’organizzazione di congressi, gestione delle relazioni, insegnamento, che sottraggono tempo alla ricerca pura e quindi alla pubblicazione, e in un sistema publish or perish a perire poi sono sempre di più le donne.”
E poi anche l’accentuarsi della differenza tra università di “serie A”, con molte risorse finanziarie e programmi di ricerca avanzati, da quelle di “serie B”, più focalizzate sulla didattica e con meno opportunità di sviluppo scientifico.
La comunità scientifica è vittima del “publish or perish”
Letteralmente, “pubblicare o perire” è l’aforisma che è stato coniato per descrivere questa ormai più che comprovata pressione a pubblicare articoli scientifici per avere successo nella carriera accademica.
La pressione maggiore viene concentrata all’inizio della carriera, paradossalmente, se pensiamo che pubblicare oggi diventa anche una questione di risorse economiche e chi è all’inizio della sua carriera è già in partenza penalizzato rispetto agli strutturati.
Il costo medio di una pubblicazione su riviste scientifiche internazionali di qualità oscilla tra i 1000 e i 5mila euro, che non tutti possono permettersi. Il posto di blocco lo supera quindi chi per merito o per fortuna è riuscito durante gli anni di formazione a pubblicare su riviste prestigiose e accumulare citazioni, chi cioè può vantare di indicatori alti. I criteri di produttività sono puramente quantitativi, indici di performance che isolano ancora di più i ricercatori nel loro castello di cristallo e delimitano il restringimento del collo di bottiglia già in fasi precocissime.