Riprendendo un’ormai antica suggestione di Umberto Eco si può dire tranquillamente che anche ai giorni nostri per molti versi le posizioni di apocalittici e integrati sulla questione ambientale siano spesso intercambiabili.
Ai suoi tempi Eco si occupava e preoccupava di comunicazione e delle conseguenze della diffusione dei mass media, e mostrava come ci fosse molto in comune tra chi li condannava vedendo in essi una minaccia alla democrazia, e chi ne preconizzava l’assorbimento e in certo modo la normalizzazione. Ho voluto nella mia comunicazione al convegno di Ferrara riprendere questo paradosso per quanto riguarda la questione ambientale. Se infatti prospera un apocalittismo che è sia colto sia popolare, e si moltiplicano la filosofie della fine del mondo alla Timothy Morton, anche linee di pensiero molto più “integrate” e “mainstream”, quali le sociologie del rischio elaborate da Ulrich Beck e da Niklas Luhmann mostrano tutta la loro debolezza e inadeguatezza.
Colpisce come tanto i pensatori apocalittici del “mondo dopo l’uomo”, quanto i sociologi che vedono nei rischi ecologici contemporanei principalmente un problema di “comunicazione” e di “governance”, risultino egualmente inutili nell’approssimarsi del disastro ambientale.
Sebbene dai filosofi del postumano nonostante le incoerenze interne e le manchevolezze analitiche giungano comunque suggestioni, e anche i sociologi della Risikogesellschaft lancino qualche inascoltato monito, quello che colpisce è la loro comune incapacità di dire una parola chiara in termini etici e politici su quanto sta accadendo.
Un’opposizione paralizzante
L’impressione è che queste due posizioni in apparenza così lontane, finiscano per convergere sortendo come loro risultato una sorta di paralisi dell’azione, e vadano perciò contrastate sul piano intellettuale.
In un libro di recente uscita, Medusa. Figure politiche dell’apocalittismo contemporaneo, ho provato perciò a mettere a fuoco le responsabilità di questi teorici, a partire dalla figura paralizzante di Medusa, mostro mitologico che sintetizza efficacemente l’impotenza che pare colpire chi guarda troppo da vicino l’approssimarsi della fine.

Il filo che tiene insieme il volume è l’assenza, sempre più inquietante, di un pensiero ambientalista all’altezza di quanto avviene. Assenza che diviene lancinante mentre si susseguono senza risultato le riunioni dei governi mondiali nelle varie edizioni delle conferenze COP, e rimangono inascoltate le grida che provengono dalle Nazioni Unite.
Passati ormai dieci anni dagli accordi di Parigi, si sono succeduti periodicamente incontri e conferenze scarsamente produttive, in una vera e propria sagra di promesse non mantenute. Le ultime puntate, sempre meno convincenti sono apparse una sorta di via crucis della questione del riscaldamento globale che viene costantemente rinviata, palleggiata, esorcizzata nelle maniere più diverse.
Mancano le “lotte geosociali” indicate da Latour
Non aveva tutti i torti il filosofo Bruno Latour quando affermava che l’incombere del disastro climatico è ormai così prossimo che può essere contrastato solo ripensando i luoghi nel presente, senza più ammettere rinvii, senza proiettare in un altro tempo la soluzione.
Ma è necessario prima comprendere i limiti culturali di una modernità che appare sempre più fittizia, sempre meno “moderna”, mostrare l’inanità delle linee di pensiero consolidate, come di quelle che si vorrebbero innovative, ritrovare la propria posizione nel mondo ed esplorare le contraddizioni anche di tanto ambientalismo politico per svolgere un’azione dotata di senso.
Nessuno detta regole nuove di comportamento sui territori, pochi si attivano in azioni di contrasto, continua a predominare una sorprendente passività. Si rimane in attesa di quelle “lotte geosociali” preconizzate dallo stesso Latour, che a partire da posizioni ambientaliste radicali e da posizioni di classe si dovrebbero confrontare con gli interessi economici e con i grandi della terra, e di cui per ora non si intravedono che deboli tracce.
I profeti della fine del mondo non offrono grande conforto sotto questo profilo: a differenza degli antichi la loro apocalisse non è accompagnata da alcun tipo di soteriologia, è una “antropocalisse” che si conclude con la morte dell’uomo.
Nel mondo classico invece apo-kalupto vuol dire sollevo il velo, e allo svelamento segue il rinnovamento, si dischiude una realtà nuova, giunge la salvezza. Il “tono apocalittico” che pervade un filone di pensiero contemporaneo invece non apre né all’utopia né alla politica, ma sfocia per lo più in un pessimismo raggelato.
Una strategia di lotta possibile: come Perseo sconfiggere la Medusa
Ma forse, come accenno nel saggio che conclude il volume, non è nemmeno attaccando frontalmente la questione della catastrofe ambientale che si può uscire dalla paralisi e dal ristagno dell’azione, ma agendo come Perseo, che per tagliare la testa a Medusa non la fissa in viso, ma si serve dello stratagemma di colpirla guardandone l’immagine riflessa sullo scudo.
L’ipotesi politica che perciò si suggerisce è quella di lotte minori, locali, laterali, ma non certo prive di vigore, in grado in ogni caso di colpire al cuore una realtà opprimente fino alla paralisi. Ma per attivare simili processi è necessario sottrarsi al tempo stesso alle dubbie fascinazioni dei teorici del postumano e del transumano, e provare a schiudere un ambito di confronto culturale in cui non trovino posto né apocalittici né integrati.