Ucraina: la guerra e la responsabilità di fermare la violenza

Ucraina: la guerra e la responsabilità di fermare la violenza

In queste pagine intendo proporre, innanzi tutto, qualche breve considerazione sulla natura della guerra in corso in Ucraina e sul contesto generale in cui il conflitto ha preso corpo; e poi alcune riflessioni sul senso di ciò che stanno facendo – o che potrebbero fare – l’Unione europea e gli Stati Uniti di fronte al dilagare della violenza.

Una guerra “normale”

Non c’è dubbio che questa guerra sia stata scatenata dal governo di Putin e che sua sia la responsabilità di quanto sta avvenendo: l’Ucraina è vittima di un’aggressione ingiustificabile da parte di una potenza che usa in modo spregiudicato il suo gigantesco arsenale bellico. 

Tuttavia, Putin non è un mostro che ha fatto irruzione nel nostro Mondo venendo da chissà dove, non è un errore della storia, e non è il nemico assoluto (il “nuovo Hitler”, come si dice). Putin non è né più malvagio né più folle di quanto lo siano molti governanti; e la Russia è una normale grande potenza militare che agisce come tale, perseguendo i suoi obiettivi anche attraverso l’impiego delle armi. 

Limitandoci agli ultimi trent’anni, si può ricordare che la Russia ha condotto una politica sanguinosa in Cecenia (1994-1996 e 1999-2001), ed è intervenuta militarmente in Georgia (2008) e in Siria (2015). Nello stesso periodo, l’altra grande potenza militare del Pianeta, gli Stati Uniti, ha condotto (spesso insieme ai suoi alleati), un numero ancora maggiore di campagne militari: la guerra per il Kosovo del 1999, quando la Nato ha devastato la Serbia fingendo di difendere i diritti umani dei kosovari; il conflitto in Afghanistan che è durato vent’anni (dal 2001 al 2021); l’invasione dell’Iraq, che ha destabilizzato la regione mediorientale per molto tempo, e quella della Libia nel 2011. 

Dunque, la tragedia che si sta consumando in Ucraina non ha niente di eccezionale. Il carattere peculiare di questo conflitto, ciò che ce lo fa apparire così speciale, è semmai che lo Stato aggredito è in Europa e che l’impiego delle armi russe a poche centinaia di chilometri dalle nostre case ci fa molta paura. 

Insomma, un primo punto da mettere a fuoco è che la guerra in Ucraina non è dovuta a una speciale scelleratezza di Putin, né a qualche caratteristica specifica della politica russa; è un fatto normale nella vita delle potenze militari.

Il prezzo della mancata integrazione

Un secondo punto da mettere a fuoco riguarda le ragioni della Russia. Queste ragioni – sia chiaro – non possono in alcun modo rappresentare una giustificazione sul piano morale dell’aggressione all’Ucraina ma, se vogliamo comprendere quel che sta accadendo, dobbiamo capire cosa ha mosso il governo di Putin. 

Interrogato sui motivi del conflitto durante un recente seminario organizzato dall’Università degli Studi di Ferrara, il politologo Alessandro Colombo ha sottolineato che, dopo il crollo del muro di Berlino, non si è fatto abbastanza per integrare la Russia in un sistema europeo allargato. 

La conseguenza è stata un drammatico approfondirsi delle diffidenze reciproche. A un primo livello, dunque, l’aggressione dell’Ucraina va collocata nel quadro della fallita accoglienza della Russia nell’assetto europeo. Da un altro punto di vista, secondo Colombo, la guerra è da mettere in relazione con l’inadeguatezza sia delle diplomazie occidentali e russa; sia delle istituzioni internazionali, prima tra tutte l’Organizzazione delle nazioni unite. 

Infine, a giudizio di Colombo, l’esplosione del conflitto ha a che fare con “il progressivo cedimento del tessuto internazionale negli ultimi trent’anni”, che ha contribuito a giustificare l’uso della guerra non regolata dal diritto come strumento politico.

Si può aggiungere che queste dinamiche sono avvenute in concomitanza con una politica di espansione verso est degli Stati Uniti e dei loro alleati europei: nel 1999, la Nato – come già ricordato – ha bombardato la Repubblica Federale di Jugoslavia, tradizionale alleata dei russi; sempre nel 1999 Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e le repubbliche baltiche sono entrate nella Nato, seguite da Romania, Slovenia Albania e Croazia. 

Di fatto, nel giro di un decennio la Russia si è trovata accerchiata dal suo vecchio nemico occidentale, tranne che ai confini con l’Ucraina e la Georgia. Questo accerchiamento ha avuto, in Russia, la conseguenza di creare una specie di sindrome da “nemico alle porte”; ha – come spesso succede in questi casi – irrigidito il carattere autoritario del regime di Putin; e ha riacceso il desiderio di perseguire una politica di potenza per poter negoziare da una posizione di forza l’intero assetto internazionale. 

A tutto questo, bisogna aggiungere che l’Ucraina è una preda particolarmente ambita perché ricca di preziose materie prime (uranio, titanio, manganese, mercurio); ed è dotata di una vastissima area coltivabile che permette l’esportazione di una grande quantità di prodotti agricoli.

Opporsi alla Russia

In un articolo pubblicato su la Repubblica il 10 marzo 2022, Edgar Morin ha scritto che “l’Occidente cerca di fermare la violenza facendo di tutto tranne l’essenziale, ossia la guerra, che sarebbe una catastrofe generale che farebbe precipitare l’Ucraina, l’Europa e l’America in un terrificante nuovo conflitto mondiale”. 

Ciò significa che le misure che si ritiene opportuno adottare (e che vengono adottate) sono 1) una serie di stringenti sanzioni economiche contro la Russia, 2) dei consistenti aiuti (denaro e armi) all’Ucraina, e 3) un’accoglienza dei profughi da parte degli Stati europei, che hanno momentaneamente messo da parte le loro resistenze nei confronti dell’immigrazione. 

Serviranno queste misure? Secondo molti esperti, le sanzioni economiche sono un’arma spuntata perché, da un lato, tendono a risultare efficaci solo sul medio-lungo periodo (quindi dopo la – prevedibile – capitolazione di Kiev); e dall’altro, non le si potrà mantenere a lungo perché, a causa della profonda integrazione dell’economia globale, si ritorcono contro chi le impone. 

La seconda misura adottata – il rifornimento di armi agli ucraini – riscuote il consenso di molti commentatori. Tra questi, si può ricordare Luigi Manconi che, su la Repubblica dell’otto marzo 2022, ha pubblicato un articolo dal significativo titolo “Perché la resistenza armata è etica” che ha suscitato un dibattito acceso. 

Manconi, citando Fenoglio, traccia un parallelo tra la guerra degli ucraini contro l’esercito di Putin e la Resistenza al nazifascismo, e si chiede per quale ragione non si dovrebbero “inviare mezzi militari ai resistenti ucraini” come gli Alleati hanno fatto con i partigiani. 

Manconi si dice consapevole del “profondo mutamento intercorso tra l’Europa degli anni Quaranta e quella odierna”, tuttavia resta convinto che fornire le armi a Kiev sia opportuno per “difendere l’identità, la dignità e il ruolo futuro” del popolo ucraino. 

Per argomentare la sua tesi, Manconi cita una sentenza di Gandhi secondo cui, chiunque uccida un uomo in preda a follia omicida dovrà essere considerato “caritatevole”. Armare gli ucraini significa, agli occhi di Manconi, trasporre “nel ferro e nel fuoco dell’occupazione russa” questa idea di Gandhi.

Quanti sostengono posizioni simili a quella di Manconi, vedono nella lotta armata soltanto un argine alla potenza dei russi; mentre tendono a non considerare che l’impiego massiccio delle armi trasformerà inevitabilmente l’Ucraina in un cumulo di macerie. 

Non solo macerie materiali, perché una guerra (o una guerriglia) prolungata, con il suo seguito di barbarie diffusa e di scatenamento degli istinti più bassi, distruggerà – non meno di un’occupazione militare straniera – ogni traccia di costumi civili in Ucraina. 

Fare la guerra, soprattutto con le armi altamente distruttive di cui si dispone oggi, non può avere niente a che fare con l’atteggiamento “caritatevole” di cui parla Gandhi perché implica necessariamente devastazioni economiche e ambientali, morti di innocenti, fratture sociali che persistono per generazioni. Si può dunque sostenere che i fautori del riarmo degli ucraini ragionino in base a un’idea astratta di resistenza armata, che non tiene conto delle conseguenze effettive dell’impiego prolungato e su vasta scala della violenza organizzata.  

Opporsi alla guerra

Alcuni interpreti – penso per esempio agli esponenti del Movimento Nonviolento – propongono di revocare il rifornimento di armi agli ucraini, di chiedere con forza a Putin il cessate il fuoco immediato, e di avviare una seria azione diplomatica. In queste trattative, l’Unione Europea dovrebbe assumere un ruolo di mediatrice tra le parti e, con il peso della sua autorità politica ed economica, farle giungere a un accordo. 

Si è anche suggerito che i quasi 500 milioni di euro in armi che l’Unione Europea sta mandando agli ucraini sarebbero stati meglio impiegati nell’istituzione di una “polizia internazionale”, di un corpo civile europeo di pace composto da volontari, e di fondi per finanziare l’attività politica degli oppositori di Putin in Russia. Si tratta, con ogni evidenza, di idee buone e feconde che non paiono, però, immediatamente praticabili. 

Sia chiaro, si tratta di proposte preziose, se non altro perché rinunciare a instaurare un dialogo onesto e a rimettere – per quanto possibile – il Mondo sui cardini significa ammettere che la nostra vita è consegnata alla violenza: una cosa che nessuna persona civile può accettare senza perdere il senso della propria esistenza. Eppure, nonostante tutto questo, la realtà è che il governo russo (ed è in buona compagnia) non è sensibile alle ragioni dell’umanità e che l’urgenza del momento sembra portare in tutt’altra direzione.

La posizione di quanti vorrebbero interrompere la fornitura di armi e puntare tutto sul dialogo, tra l’altro, presenta (almeno) due ulteriori grossi problemi. Il primo, di ordine morale, riguarda la difficoltà di giustificare di fronte agli ucraini il rifiuto di dar loro le armi che chiedono. 

Gli uomini che, a Kiev e altrove, vedono i russi avanzare nelle strade della loro città non sanno niente, e non vogliono sapere niente, delle nostre buone ragioni contro la prosecuzione della guerra; quello che vogliono sono gli strumenti utili a fermare quel preciso plotone che vuole entrare a casa loro, dove sono le loro cose e i loro cari. Vogliono che i soldati non tocchino i loro figli o, almeno, non ora, non oggi, non questa settimana; fino a che punto è possibile o lecito negare a questi uomini simili strumenti? 

Il secondo problema è di ordine politico: è ovvio che ogni trattativa è condizionata dai rapporti di forza esistenti sul terreno. Respingere l’esercito russo, distruggere un gran numero dei suoi mezzi, metterlo in difficoltà sul piano militare, oltre che economico e politico, potrà consentire agli ucraini di condurre negoziati su un piano di vantaggio (sempre ammesso che, dopo aver inflitto ai russi gravi perdite e averne subite altrettante, rimanga in Ucraina qualche cosa su cui negoziare); e, per il futuro, scoraggerà i russi dal proseguire una politica aggressiva in Europa.

Evitare l’Armageddon

Penso che non si possa non essere lacerati di fronte a questa guerra; ogni atteggiamento assertivo è fuori luogo, quando non addirittura volgare. Bisogna avere ben chiaro che la situazione è complessa e contraddittoria; bisogna essere consapevoli della difficoltà di una scelta definitiva e che tagliare il nodo gordiano, comunque lo si tagli (o non lo si tagli), ha dei costi terribili. 

Un atteggiamento sobrio e riflessivo da parte nostra non dovrebbe consistere nella ricerca della “soluzione”, un’escogitazione geniale che rimetta le cose a posto; ma innanzi tutto nell’evitare di peggiorare la situazione, nell’ostacolare il dilagare della violenza. Si dovrebbero aprire tutti i canali possibili per una trattativa diplomatica, ricercare con ostinazione una via d’uscita dallo scontro (che non significa opporsi per principio all’impiego della forza, ma tener conto dei buoni suggerimenti che vengono dal mondo nonviolento).

Penso anche, però, che non sia lecito confidare troppo in questi tentativi perché l’invasione dell’Ucraina rappresenta già la sconfitta della civiltà. Forse, invece di chiederci cosa fare adesso, dovremmo chiederci cosa potevamo fare, e non abbiamo fatto, per costruire un ordinamento internazionale stabile e inclusivo. 

Perché quando il disastro in Ucraina troverà una propria fine, ci si dovrà rimboccare le maniche e realizzare tutto quello che avremmo già dovuto costruire: un assetto giuridico adatto a garantire un nuovo ordine internazionale, un dialogo aperto e costante di noi europei con tutti i nostri vicini (russi, asiatici e africani), una lotta efficace alle disuguaglianze (che dovrà comprendere anche un ridimensionamento di certe dinamiche capitaliste), una riforma delle istituzioni democratiche all’interno degli Stati (per renderle maggiormente rappresentative e trasparenti), un rafforzamento dell’Unione Europea in senso federale e responsabile nei confronti dei suoi cittadini. 

Che la tragedia ucraina serva almeno a convincerci che la via per la pace è questa e nessun’altra.

3 thoughts on “Ucraina: la guerra e la responsabilità di fermare la violenza

  1. Profonda analisi, non ideologica, della situazione. Sfortunatamente per noi l’approccio politico di avere ’un nemico’ é quello più remunerativo e semplice da esporre.

  2. Le tragedie della storia dovrebbero insegnarci qualcosa. Lo ripetiamo ogni volta. Ogni volta, però, la spirale della tragedia ha fatto un altro giro. E il numero di giri che abbiamo davanti non è infinito, ma sta per esaurirsi.

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